Afghanistan, la "sindrome Saigon" | Giuliana Sgrena
Top

Afghanistan, la "sindrome Saigon"

In vista del ritiro delle truppe straniere nel 2014 molti afghani cercano di lasciare il paese. La propaganda Usa sulla possibilità di una guerra civile mira a far accettare basi americane dopo il ritiro.

Afghanistan, la "sindrome Saigon"
Preroll

Redazione Modifica articolo

14 Maggio 2013 - 16.55


ATF

In Aghanistan si sta diffondendo la “Sindrome Saigon”. In vista del ritiro degli americani nel 2014, molti sono gli interrogativi, l’unica cosa certa è che molti afghani che si sono messi da parte un gruzzolo depositato in banche straniere, quelli che hanno proprietà da vendere e soprattutto quelli che hanno lavorato per le truppe straniere se ne vogliono andare. E stanno già chiedendo i visti per l’occidente. Usa e Canada le mete prescelte.

Sono in molti quelli che per partire dovranno vendere le ville dall’architettura discutibile o le innumerevoli sale per matrimoni (wedding hall) sorte come funghi nella capitale, come se i matrimoni fossero la principale occupazione dei rampolli delle famiglie dei signori della guerra ulteriormente arricchitisi con il narcotraffico. La corsa alla vendita insieme alla partenza di molti occidentali farà prevedibilmente crollare i prezzi di vendita e di affitto di molti palazzi e ville finora esagerati per una città disastrata come Kabul. In previsione di questo crollo molti cantieri edilizi hanno già interrotto i lavori.

Anche se la Sindrome Saigon avrà un impatto limitato sulla popolazione, questo sembra l’unico effetto del ritiro delle truppe americane che tutti avvertono. Frutto probabilmente anche della propaganda americana che paventa lo scoppio della guerra civile dopo la loro partenza. L’obiettivo degli Usa tuttavia non è quello di far scappare gli afghani ma di diffondere la paura per far accettare le numerose basi che gli americani stanno contrattando per mantenere la propria presenza e il proprio controllo sul paese.

A Kabul già non si vedono più truppe straniere in circolazione e se non fosse per il pallone aerostatico a forma di pesce che sovrasta la città e la sorveglia come l’occhio del grande fratello, si potrebbe quasi dimenticare l’occupazione. Ma basta avvicinarsi alla zona verde –dove sono situate le ambasciate circondate da alte muraglie sovrastate da filo spinato e sorvegliate da contractor afghani e stranieri che ti fanno passare attraverso corridoi protetti da sacchetti di sabbia – per capire che la guerra non è finita.
Cosa succederà veramente in Afghanistan nel 2014, dopo il ritiro delle truppe straniere? Nessuno è in grado di dare risposte certe. Ci sarà la guerra civile come dicono gli americani? “La guerra civile c’è già, c’è sempre stata”, sostiene Malalai Joya, una delle oppositrici più determinate dei signori della guerra, che governano il paese. Per questo era stata buttata fuori dalla Loya jirga. Dopo essere stata eletta con molti voti nella sua provincia di Farah. Il suo impegno continua, perché dopo il ritiro almeno parziale delle truppe Usa, i signori della guerra che resteranno al potere con l’appoggio americano, si sentiranno ancora più forti e prenderanno di mira soprattutto gli intellettuali, sostiene Malalai.

Probabilmente continueranno le eliminazioni fisiche degli oppositori del regime, come continueranno i conflitti all’interno del governo, senza però arrivare agli scontri tra mujahidin che hanno distrutto Kabul nel 1992. Tutti sono stufi di questa guerra interminabile e poi i vari signori della guerra (taleban compresi) troveranno il modo di spartirsi il potere.

Saranno i giovani a cambiare il volto del regime di Kabul? Molti figli di signori della guerra e di altri arricchiti hanno studiato all’estero, in occidente, e difficilmente torneranno per imbracciare un fucile. “Saranno utilizzati dagli americani per dare una nuova immagine del governo fantoccio, ma la pensano come i loro padri”, sostiene Hafizullah, portavoce di Hambastaghi, il Partito della solidarietà. “I signori della guerra investono sui figli che mandano a studiare all’estero, quindi le pressioni su di loro saranno pesanti. Ma c’è anche chi si ribella e la giovane generazione è comunque una speranza”, conclude Malalai Joya.

Native

Articoli correlati