Le autoimmolazioni non fanno più notizia | Giuliana Sgrena
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Le autoimmolazioni non fanno più notizia

Il coronavirus frena il turismo e aggrava la situazione economica. La rivoluzione non ha risolto i problemi sociali soprattutto nelle regioni interne e nel sud.

Le autoimmolazioni non fanno più notizia
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

27 Giugno 2020 - 23.25


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In Tunisia l’autoimmolazione non fa più notizia. Non se ne trova traccia sui giornali. «Casi del genere sono ricorrenti vista la difficile situazione economica e sociale» commenta una giornalista da Tunisi. Qualche traccia si trova sulla stampa internazionale.

È IL CASO DI HAMMADI CHALBI, 32 anni, disabile, disoccupato, la moglie in attesa di un bambino, che all’inizio di aprile in piena emergenza da coronavirus si è dato fuoco davanti agli uffici del governo locale a Maktar, la città romana a sud ovest di Tunisi. La disperazione era giunta al culmine di fronte all’ennesimo rifiuto delle autorità di concedere un permesso di vendita ambulante, l’unica possibilità viste le sue condizioni fisiche. È lo stesso motivo per cui, nel dicembre del 2010, Mohammed Bouazizi si era dato fuoco a Sidi Bouzid scatenando la Rivoluzione dei gelsomini.

LA RIVOLTA DI ALLORA non nasceva dal nulla, era stata preceduta dalle lotte sindacali nelle miniere di Gafsa, ma anche oggi non mancano le proteste, soprattutto nel sud del paese, a Tataouine, riprese dopo che il governo non aveva rispettato gli accordi raggiunti nel 2017. E continueranno con lo sciopero convocato per lunedì dall’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt).

Allora perché tanta indifferenza dei media e il ricorso alla forza da parte del governo per sedare le proteste?

Il coronavirus – contenuto sul piano sanitario: 50 decessi, 1160 infettati – è stato devastante sul piano economico e sociale, gli aiuti statali sono insufficienti per la ripresa e per garantire un salario minimo (in base a un accordo tra sindacato, padronato e governo) mentre aumenta la disoccupazione. Gli effetti peggiori si vedranno nei prossimi mesi con il crollo del turismo, che rappresenta il 14% del Pil e che, insieme ai fosfati di Gafsa, è una delle risorse maggiori del paese. Non basterà infatti la riapertura delle frontiere tunisine (il 27 giugno) per garantire un settore che quest’anno potrà sfruttare solo il 50% delle proprie potenzialità a causa delle misure sanitarie. Nonostante, proprio per il protocollo, la Tunisia sia indicata come una delle mete per il turismo post-Covid dalla rivista Forbes. Un settore che era in forte ripresa dopo le battute d’arresto registrate nel 2011 per la rivoluzione e nel 2015 per gli attentati terroristici e che quest’anno ha comunque perso le prenotazioni di inizio stagione.

Protestano anche le operatrici sanitarie, in prima linea contro la pandemia (Ap)

LA SITUAZIONE TUNISINA impone una valutazione sugli effetti della rivoluzione del 2011 che sul piano economico e sociale non registra certamente un bilancio positivo: la collusione tra potere politico e le famiglie (con Ben Ali era una sola) che controllano ancora l’attività economica non è stata scalfita. La marginalizzazione delle regioni interne e di frontiera fa tollerare il contrabbando e l’economia informale. Le promesse di combattere la corruzione sono state eluse.

Sul piano politico lo scontro tra la presidenza, il governo e il presidente del parlamento fa rimettere in discussione il sistema politico adottato dopo la rivoluzione, tanto che si parla di «terza repubblica».

PER ORA IL POTERE sembra monopolizzato dal presidente del parlamento, l’islamista Rachid Ghannouchi, che approfittando della frantumazione dell’Assemblea impone la sua agenda, improntata soprattutto sulla politica estera e, in particolare, gli accordi tra Tunisia, Turchia e Qatar. Grande sostenitore di Erdogan, in gennaio è stato ricevuto in pompa magna in Turchia. Due mesi più tardi ha partecipato a una conferenza internazionale organizzata in Qatar dai Fratelli musulmani. Più recentemente, ha telefonato al premier libico Fayez al Sarraj, per felicitarsi della riconquista della base strategica di al Witya, che era nelle mani di Haftar. La telefonata ha imbarazzato il presidente Kais Saied, cui spetta la politica estera, che tiene a ribadire la posizione di neutralità nel conflitto libico, come ha fatto recentemente durante il suo incontro a Parigi con il presidente Macron. Kais Saied ha anche deplorato l’iniziativa di Karama (islamisti) che impegnava il parlamento a chiedere le scuse di Parigi per i crimini commessi durante e dopo la colonizzazione, sostenendo che le scuse si fanno con i fatti e non con le parole. Rendendo esplicito lo scontro con Ghannouchi, il presidente ha affermato che non vuole che gli si pestino i piedi. La debolezza del presidente, che cerca appoggio nell’Ugtt, sta nel fatto di non avere un partito alle spalle né rappresentanti in parlamento.

A RENDERE ANCORA PIÙ esplosiva la situazione è l’accusa di conflitto di interessi e di corruzione nei confronti del capo del governo Elyes Fakhfakh. Ieri proprio mentre presentava ai deputati un bilancio dei suoi cento giorni di governo e un piano per il rilancio dell’economia, in parlamento girava una mozione dell’opposizione (Qalb Tounes e Karama) che chiedeva le sue dimissioni. Ennahdha che vuol fare entrare Qalb Tounes nel governo non appoggia però la mozione: meglio un esecutivo debole e ricattabile.

il manifesto 27 giugno 2020
 

 

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