Si può dire che ancora una volta la piazza è riuscita a fare sentire la sua voce? Forse sì se i tre candidati ministri dell”Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt) e Mustafa Ben Jafaar del Forum per la libertà e il lavoro ieri non hanno fatto il loro giuramento e altri ministri dell”opposizione, come Ahmed Ibrahimi di Ettajdid, minacciano di abbandonare il governo. Intanto il presidente e il primo ministro si sono dimessi dal partito Rcd, di cui l”opposizione chiede lo scioglimento.
Ieri, la fine del coprifuoco sembrava aver riportato Tunisi alla normalità. I bar e i negozi avevano riaperto, le banche anche, i mezzi di trasporto funzionavano e gli spazzini cercavano di ripulire la città dai rifiuti e dai resti della battaglia, ma l”apparente normalità è durata poco. Come quasi ogni mattina, verso le undici, è arrivato il primo gruppo di manifestanti, qualcuno mostrava anche una baguette appena comprata (il pane si trova), e tutti urlavano che il Raggruppamento costituzionale democratico se ne deve andare, ovvero deve essere sciolto. Quando sono arrivati faccia a faccia con la polizia sono cominciate le cariche con i lacrimogeni, pesantissimi, anche i poliziotti che inseguivano i manifestanti si mettevano la mascherina. Queste prove di «guerriglia urbana», dove anche i passanti si sono trovati in mezzo, sono andate avanti per oltre due ore, vi hanno partecipato centinaia e centinaia di giovani, con una regia ben orchestrata, segno che la spontaneità non vuol dire mancanza di organizzazione.
La posizione dei giovani e meno giovani (donne e uomini) che contestavano era condivisa da tutte le persone che interpellavamo, preoccupate che tutto possa continuare come prima, gli ex ministri confermati nei loro ministri chiave alimentano la sfiducia.
Per tutta la giornata si sono rincorse voci continue di possibili dimissioni dal governo. Alla fine gli unici a non presentarsi al giuramento sono stati il ministro della salute (Mustafa ben Jafaar) e i tre rappresentanti dell”Ugtt: Abdijelil Bedoui, Anour Ben Gueddour e Houssine Dimassi. Ancora una volta si era consumato lo scontro tra la direzione del sindacato, più disponibile al compromesso con il potere, e le strutture locali che hanno partecipato alla costruzione del movimento che poi è sfociato nella rivoluzione dei gelsomini. Una riunione ieri mattina del Comitato amministrativo aveva smentito la decisione della direzione chiedendo il ritiro dei candidati ministri. Secondo fonti del Partito democratico progressista si tratterebbe solo di una pausa di riflessione ma è difficile immaginare un nuovo cambiamento di posizione.
È chiaro tuttavia che è in corso un duro braccio di ferro tra il premier Muhammed Ghannouchi e i candidati dell”opposizione. Un «ministro» si è già dimesso, Ahmed Ibrahimi minaccia di farlo se non saranno soddisfatte le richieste del suo partito Ettajdid, nato da una costola del partito comunista tunisino. Abbiamo incontrato il numero due del partito, Mahmoud Ben Ramdhane, in una sede affollatissima. Fin davanti all”edificio, sul marciapiede, molti militanti discutono. La scelta del partito pone molti problemi, è tanto più evidente quando passa uno dei cortei che di lì a poco si scontreranno con la polizia mentre il fumo dei lacrimogeni invade le strade circostanti. Tra le condizioni poste da Ettajdid al governo vi è la richiesta di scioglimento del Rcd o la dimissione dei ministri dal partito che fu di Ben Ali (le dimissioni del presidente e del premier dal Rcd sembrano un gesto in questa direzione) e il congelamento dei beni del Rcd. Inoltre il ministro degli interni deve chiedere scusa al popolo per la repressione, soprattutto dopo la pessima uscita del premier che in una intervista alla televisione non solo ha ammesso di aver parlato con Ben Ali della situazione («deve essere rispettato come persona», ha aggiunto), ma ha anche minacciato i manifestanti. Affermazioni che hanno contribuito a scaldare ulteriormente gli animi. Nelle prossime ore vedremo se queste condizioni saranno accettate o sarà Ahmed Ibrahimi a cedere.
Ma perché Ettajdid, un partito nato da una costola del partito comunista tunisino, ha accettato di partecipare al governo? «Per realizzare due obiettivi: evitare che il paese sprofondi nel caos e permettere di andare a elezioni generali trasparenti e credibili, che siano veramente espressione della volontà del popolo. Abbiamo ricevuto delle garanzie in questo senso», ci ha detto Mohammed Ben Radhmane.
Anche l”altro «ministro» dell”opposizione sembra lacerato dalla contraddizione tra un governo poco rivoluzionario e le richieste del movimento. Un comunicato molto ambiguo e l”impossibilità di parlare con i dirigenti del partito, sono una rivelazione delle contraddizioni. Ma quello che riusciamo a sapere è il timore – sarebbe il ricatto esplicito del premier – che in caso di fallimento del governo il potere venga affidato direttamente ai poteri forti, ovvero all”esercito. Sebbene sui carri armati qualcuno abbia depositato dei fiori è chiaro che il potere ai militari non aprirebbe la strada alla democrazia.
Finora lo stato di emergenza non è stato revocato e tutto può ancora succedere.
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Tunisia. Il nuovo governo assomiglia al vecchio
L''esecutivo non rompe con il passato'
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19 Gennaio 2011 - 11.52
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