Guerre del Golfo tra fake news e veline del Pentagono | Giuliana Sgrena
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Guerre del Golfo tra fake news e veline del Pentagono

La militarizzazione dell'informazione con l'istituzionalizzazione dei giornalisti embedded

Guerre del Golfo tra fake news e veline del Pentagono
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

19 Gennaio 2021 - 17.07


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Il 16 gennaio 1991, era da poco passata l’una di notte in Italia quando un massiccio e devastante attacco lanciato con i missili Cruise dalle navi e dagli aerei da guerra americani, britannici, sauditi dava il via alla prima guerra del Golfo. Una guerra annunciata, dopo l’invasione irachena del Kuwait, con un ultimatum dell’Onu scaduto il 15 gennaio e sanzioni economiche senza precedenti.

La guerra diventava uno spettacolo che andava in onda sulle tv di tutto il mondo grazie alle veline diffuse dal Pentagono. Doveva essere una guerra senza testimoni: i giornalisti erano stati evacuati dall’Iraq. A contrastare i piani del Pentagono e a raccontare la guerra dalla parte delle vittime erano rimasti coraggiosamente a Baghdad solo Stefano Chiarini del Manifesto, Peter Arnett della Cnn e Fabrizio del Noce della Rai.

Gli americani dopo la sconfitta in Vietnam, con il contributo anche dei giornalisti che ne avevano documentato gli orrori, non volevano più testimoni. Nella prima guerra del Golfo infatti gran parte dei giornalisti «in prima linea» erano parcheggiati ai bordi delle piscine dei grandi alberghi del Golfo in attesa delle immagini diffuse dal Pentagono, a nome di tutta la coalizione di 33 paesi aggressori, che riprendevano gli aerei in missione «per operazioni chirurgiche» e che tornavano all’insegna della «missione compiuta». Era l’era delle tanto sbandierate «armi intelligenti» che tanto intelligenti non si sono dimostrate.

Nella seconda guerra del Golfo, se possibile ancora più annunciata della prima, si è raggiunto il culmine della falsificazione sulla base di notizie che definire oggi fake news sembra quasi sminuirne la portata. Il possesso da parte dell’Iraq di armi di distruzione di massa non solo non era dimostrato – se non dalla sceneggiata di Colin Powell all’Onu che si basava su informazioni del prezzolato Ahmed Chalabi e dalle ridicole prove fornite da un faccendiere collaboratore del Sismi sull’acquisto da parte dell’Iraq di uranio in Niger – ma era smentito dagli stessi osservatori dell’Aiea presenti sul ca

Il 20 marzo 2003, con una decina di «irriducibili» eravamo rimasti all’hotel Rashid, mentre gli altri giornalisti si erano spostati sull’altra riva del Tigri. L’attesa logorante era sottolineata dalla musica classica diffusa in tutto l’hotel. Era già l’alba, pensavamo che di giorno non avrebbero più attaccato, quando le sirene d’ allarme ci riportarono alla realtà e ci trovammo per lunghe notti al centro di un inferno di fuoco.

Nel 2003 i tentativi di allontanare tutti i testimoni, messi in atto dalle varie ambasciate occidentali, erano falliti. Miseramente e goffamente l’ambasciata italiana, dopo sollecitazioni, aveva fatto arrivare i kit per proteggere i giornalisti dalle famigerate armi di distruzione di massa, ma i vari filtri, tute etc. da usare entro 1-2 minuti dall’individuazione del tipo di arma, dovevano rimanere depositate presso l’ambasciata!

Consapevoli che non avrebbero potuto evitare l’assalto dei media di tutto il mondo, gli Stati uniti avevano pensato di arruolare i giornalisti: addestrati, selezionati idonei e sottoposti a regole d’ingaggio (censura e/o autocensura). Con la seconda guerra del Golfo viene istituzionalizzato il giornalismo embedding, il che equivale alla «militarizzazione» dell’informazione. Il paradosso è che gli embedded arrivati a Baghdad con divise color cachi come i soldati e a bordo di mezzi militari si distinguevano da quelli presenti in Iraq definiti «unilateral».

La militarizzazione spesso contagia il modo di fare informazione. È successo il 9 aprile, quando gli americani hanno completato l’occupazione di Baghdad in piazza Firdaus dove hanno abbattuto la statua di Saddam. Il tutto avveniva in una città spettrale, gli iracheni erano chiusi in casa, per la strada passava solo qualche saccheggiatore con la refurtiva.

Ad assistere alla «photo opportunity» per sancire la missione compiuta c’erano i giornalisti (centinaia) e i loro collaboratori iracheni, ma il commento unanime delle immagini trasmesse dalle tv nel mondo era di una folla di iracheni giubilanti. Con rare eccezioni, come quella di Robert Fisk che l’ha definita la photo opportunity più costruita dopo Jwo Jima.

Fare informazione in situazioni in cui l’accesso è permesso solo agli embedded è difficile ma essenziale per evitare la monopolizzazione dei «vincitori» che oscurano gli orrori commessi. Alla vigilia delle elezioni del 2005, gli Usa avevano deciso di distruggere Falluja, simbolo della resistenza all’occupazione. L’attacco a una città assediata e blindata non aveva risparmiato mezzi.

A seguirlo – da parte americana – solo giornalisti, di cui molti fotografi, embedded. Nella notte il cielo si illuminava a giorno. Per la versione Usa si trattava di illuminanti per individuare l’obiettivo da colpire. Una risposta «plausibile», ma non se si riusciva a parlare – andandosela a cercare – con i profughi che riuscivano a scappare da Falluja dopo l’inizio dei bombardamenti: i corpi scarnificati delle vittime portavano il segno dell’uso di armi al fosforo bianco (quel biancore nel cielo), come all’aeroporto di Baghad i militari iracheni erano stati carbonizzati dall’uso del napalm. Ma le notizie sarebbero state confermate solo molto dopo, quando non facevano più scalpore.

il manifesto 15 gennaio 2021

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