Egitto, perché non basta condannare il golpe | Giuliana Sgrena
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Egitto, perché non basta condannare il golpe

Nessuno si è mai preoccupato di sostenere le ragioni di chi ribellandosi in modo non violento era riuscito ad abbattere una dittatura. Non possiamo consolarci con pigre e stereotipate analisi o con comodi paragoni storici, il destino delle primavere

Egitto, perché non basta condannare il golpe
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9 Luglio 2013 - 08.43


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Un golpe è un golpe e va condannato, soprattutto da chi ritiene che al potere si debba arrivare senza usare la violenza. Questo però non deve esimerci da un”analisi approfondita di quello che sta avvenendo in Egitto.

La storia non si ripete mai nello stesso modo, ogni contesto è diverso ed è legato alle condizioni concrete e alla collocazione geografica di ogni paese. Altrimenti, a suo tempo, avremmo dovuto convenire con gli algerini che giustificavano l”interruzione del processo elettorale da parte dei militari ricordando che poiché anche Hitler era arrivato al potere con le elezioni, se fosse stato bloccato il mondo avrebbe evitato una catastrofe. Oppure dovremmo essere d”accordo con chi ancora oggi sostiene il diritto di intervenire militarmente – sempre, ovunque e comunque – in nome della democrazia come hanno fatto gli americani in Europa nella seconda guerra mondiale. I regimi militari e autoritari sono da condannare non in nome della nostra democrazia ma dei diritti universali. Invece i governi occidentali sono passati dall”appoggio alle dittature di Mubarak e Ben Ali al sostegno dell”autoritarismo dei Fratelli musulmani in Egitto e in Tunisia. Nessuno si è mai preoccupato di sostenere le ragioni di chi ribellandosi in modo non violento era riuscito ad abbattere una dittatura. Contrariamente a quanto scritto da Gian Paolo Calchi Novati (il manifesto, 7 luglio 2013) penso che i ribelli possano essere «buoni» o «cattivi» o, meglio, rivoluzionari in nome della democrazia o reazionari in nome della teocrazia.

Sgombrato il campo da paragoni inappropriati (addirittura il Cile) occorre affrontare quello che sta succedendo in Egitto a partire dai fatti e dalle forze in campo – anche in un momento di grande disordine e di tragedie mentre gli eventi si succedono cambiando continuamente lo scenario -, senza pretese di dare lezioni a nessuno.

Si è detto: l”esercito si muove solo per difendere i propri interessi. È vero, così come per tutti gli altri attori in gioco. Gli interessi possono essere materiali (potere, proprietà, privilegi, etc.) o ideali anche se concreti (democrazia, giustizia, diritti). Anche se dietro agli ideali spesso si nascondono fini non dichiarati o non dichiarabili.

In nome della democrazia si difende Morsi perché è stato eletto, si dice, con libere elezioni, che proprio democratiche non sono state, come non lo sono in nessuno dei paesi che escono da esperienze dittatoriali e non hanno avuto il tempo di sperimentare un processo democratico (Afghanistan, Iraq etc.).

Morsi è invece criticato per la sua inefficienza, soprattutto per la sua incapacità di affrontare i problemi del paese perché strozzato dal Fondo monetario: è vero, ma non si parla mai della politica liberista dei movimenti islamisti (quella che è stata ben esplicitata dal premier turco Erdogan che voleva distruggere Gezy park per costruire un supermercato e una moschea). Morsi non è stato solo inefficace: ha cercato con un «golpe» governativo (un decreto) di assumere tutti i poteri, solo la rivolta di piazza lo ha costretto a ritirarlo. Ha avallato una costituzione (chiamarla costituzione è un po” esagerato visto che non garantisce i diritti fondamentali) elaborata solo dai due partiti islamisti che apre la strada all”introduzione della sharia. Una costituzione in cui, sempre in nome della sharia e della moralità, si possono giustificare tutte le violazioni dei diritti della persona (e in particolare delle donne), dove i delitti morali prevalgono sui reati stabiliti da una legge basata sul diritto. Molti articoli supportano più una dittatura che uno stato democratico: la limitazione della rappresentanza sindacale, mentre non si fa nessun accenno al divieto di discriminazioni religiose, sessuali o etniche. Le libertà di espressione è condizionata dai principi che regolano lo stato e la società, la sicurezza nazionale, le responsabilità pubbliche, etc.

Queste denunce non possono giustificare l”esercito, che con gli islamisti aveva raggiunto dei compromessi e si era messo al loro servizio per i compiti più sporchi come quello della repressione e del controllo della verginità, ma servono a spiegare come sia difficile opporsi a due poteri così forti: da una parte la forza militare e dall”altra una forza politica-religiosa reazionaria e fascisteggiante. «I Fratelli musulmani si sono trasformati nella peggiore delle loro caricature: una banda di criminali fascisti», aveva scritto Hani Shukrallah sul quotidiano egiziano più importante al Ahram. Questo può anche spiegare perché alcune forze politiche di sinistra, non sapendo scegliere tra peste e colera, nelle scorse elezioni per contrastare i militari avevano votato Morsi e oggi gli si sono rivoltati contro.

Naturalmente a penalizzare il «terzo polo» sono state le divisioni interne del fronte laico-democratico che sembrano superate con la formazione del Fronte di salvezza nazionale. Tuttavia l”opposizione a Morsi resta eterogenea anche se dopo che i salafiti (islamisti radicali) si sono sganciati dalla trattativa per la formazione del nuovo governo è venuta meno l”alleanza più evidentemente contro-natura.

Collocarsi contro i due poteri forti è molto difficile, si rischia di essere schiacciati e questo può spiegare i festeggiamenti al golpe dei militari da parte di centinaia di migliaia di persone anche se non può in nessun modo giustificarlo. Quel che è purtroppo certo è che non mancheranno spargimenti di sangue. Le immagini che ci arrivano dal Cairo sono di un paese spaccato. Il rischio più grave è che una rivoluzione iniziata con la non violenza – anche se le vittime sono state molte – finisca in una guerra civile. Ed è per questo che, a maggior ragione, non possiamo consolarci con pigre e stereotipate analisi o con comodi paragoni storici, il destino delle primavere arabe è troppo importante per tutti.

il manifesto, 9 luglio 2013

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