La morte di Vittorio Arrigoni | Giuliana Sgrena
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La morte di Vittorio Arrigoni

Perché si deve morire per dire la verità

La morte di Vittorio Arrigoni
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16 Aprile 2011 - 11.52


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L”incubo che ti perseguita, notte e giorno, improvvisamente si materializza: un video su uno schermo, l”iconografia della morte messa in scena come ricatto alla vita. Un altro, uno di noi: pacifista, giornalista, volontario, uomo, donna ridotto a merce di scambio, arma di guerra o solo di propaganda. Una persona amica dei popoli oppressi, che ha speso la vita per sostenere la causa dei più deboli, viene barbaramente assassinata.
Non ti lasciano il tempo di pensare cosa fare per salvare Vittorio. Vittorio già non c”è più. Dei mostri ce l”hanno portato via, mostri sì, altrimenti come si potrebbe commettere un crimine così atroce? Come si può umiliare così un popolo che avrebbe bisogno di umanità e non di barbarie? Un crimine commesso innanzitutto contro i palestinesi da palestinesi obnubilati da un fanatismo che non ha limiti né frontiere. Quando si fa della religione un mezzo per raggiungere il potere e della morte uno strumento di lotta ci sarà sempre qualcuno che si ergerà al difensore più ortodosso del libro fino a considerare tutti gli altri nemici. Inutile cercare una logica quando la ragione sfugge agli schemi del fanatismo.
Eppure non vogliamo, non possiamo rassegnarci. Sebbene fare solidarietà o cercare di informare sulle atrocità della guerra (e Vittorio faceva entrambe le cose) sia sempre più rischioso.
Nonostante già le prime immagini di Vittorio non lasciassero molte speranze, pensavamo che forse l”ultimatum potesse essere un modo per alzare il prezzo, per segnare la presenza di un nuovo gruppo della nebulosa salafita qaedista sul terreno. Un terreno sempre più infido quello di Gaza. Ma non l”unico.
Ricordi e ipotesi: come finirà? Dipende da chi sono i rapitori, è la prima cosa da scoprire mi aveva detto Ra”ad, l”ingegnere rapito con Simona Torretta, Simona Pari e Manhaz. Ed è quello che ho cercato di fare quando è successo a me. Scrutavo ogni movimento, ogni atteggiamento per assicurarmi che i miei rapitori non fossero fondamentalisti e fanatici religiosi per escludere che appartenessero ad al Qaeda. Questo serviva solo ad avere qualche speranza di poter uscire viva, magari con una trattativa, anche se chi sequestra dei civili – peraltro tutti impegnati a fianco della popolazione locale – non può essere certamente sensibile alla vita umana. Non erano forse già stati uccisi Enzo Baldoni e Margaret Hassan e molti altri?
Eppure quando non si ha altra risorsa per resistere all”angoscia della prigionia anche attaccarsi a un filo pur flebile di speranza serve, come serve un nodo sulla frangia di una sciarpa per contare i giorni. Ma per Vittorio non ci sono stati giorni da contare, forse nemmeno ore. Nei momenti più atroci del mio sequestro pensavo al modo in cui mi avrebbero uccisa e passavano davanti a me i video dei vari stranieri ai quali era stata squarciata la gola e consideravo il colpo di una pallottola il male minore. Almeno fino a quando le pallottole non sono arrivate davvero, ma a spararle erano americani. Vittorio non è stato risparmiato, aveva il viso tumefatto, di Baldoni sono tornati pochi resti in una piccola cassetta di legno, tanto per dire che è stato sepolto e permettere alla famiglia di elaborare il lutto.
Proprio in questi giorni è uscito in Grecia un film documentario sui giornalisti in Iraq dal titolo Morire per dire la verità. Ma perché di deve rischiare la vita per dire la verità o per un gesto di solidarietà con i contadini o con i pescatori palestinesi?
E perché ripensando a chi non ce l”ha fatta insieme all”enorme dolore emerge quasi un senso di colpa, quella sindrome da sopravvissuto che qualcuno ha ritrovato nel mio racconto?

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