Il 22 febbraio è stata una giornata storica per l’Algeria. Nessuno l’aveva prevista una decina di giorni fa quando il presidente Bouteflika si era nuovamente candidato alle elezioni presidenziali del 18 aprile. La decisione, sconcertante per molti, politici compresi, tenendo anche in considerazione le pessime condizioni di salute di Bouteflika (ieri ha dovuto recarsi a Ginevra per controlli medici), sembrava si sarebbe risolta nell’indifferenza e con una forte astensione. L’improvvisa mobilitazione era del tutto inaspettata.
NON SARÀ PARTITO a cuor leggero il presidente dopo le manifestazioni che venerdì hanno scosso tutta l’Algeria, non solo per impedirne la candidatura – che è stato l’elemento scatenante – ma per porre fine a un sistema corrotto.
Algeri non voleva essere da meno di tutte le altre città già mobilitate da giorni e ha sfidato il divieto a manifestare in vigore dal giugno del 2001, dopo che una manifestazione degli Aarouch, movimento berbero, era finita nel sangue. Quella di venerdì era la prima manifestazione dopo il 2012 e la polizia ha adottato la stessa tattica di allora. Le forze antisommossa che presidiavano la capitale fin dal mattino hanno cercato di evitare concentramenti portando al commissariato i primi manifestanti che arrivavano in piazza Primo maggio (luogo tradizionale dei concentramenti), per poi rilasciarli poche ore dopo.
COSÌ AVEVANO FATTO anche nel 2011 alle manifestazioni alle quali avevo partecipato. Ma questa volta i manifestanti si sono dati appuntamento in diverse piazze, dopo la preghiera del venerdì, nonostante gli imam avessero invitato alla calma, attraverso i social network. A nulla è servito il boicottaggio di internet operato dalle autorità, il messaggio era già partito. Sorpresi anche coloro che temevano una nuova manovra islamista visto l’orario della mobilitazione. Il successo è stato strepitoso – 100mila persone secondo una valutazione interna della Direzione generale della sicurezza nazionale – soprattutto per una mobilitazione assolutamente spontanea. Nel corteo c’erano i cartelli con gli slogan e molte bandiere algerine, nelle quali alcune ragazze si avvolgevano, ma nessun simbolo di partito.
PERCHÉ NESSUN PARTITO era coinvolto nella preparazione, anche se alcuni politici alla fine si sono mischiati alla folla dove la prevalenza era di giovani, studenti, disoccupati, quadri, militanti, a cui si sono uniti – visto che la manifestazione era pacifica e le forze dell’ordine non hanno usato mezzi per disperderla – donne, con o senza velo, artisti, famiglie con bambini e anziani. C’erano barbuti e laici, gente di sinistra e di destra, l’indicazione per tutti era di non fare o accettare provocazioni. Qualche lacrimogeno è stato sparato solo contro un gruppo che si era avvicinato al palazzo della presidenza della repubblica, senza conseguenze.
Lo slogan rivolto alla polizia era: «Manifestanti e poliziotti, siamo fratelli». Non si sa se il comportamento della polizia sia stato ordinato dai superiori o se semplicemente sia stato effetto della sorpresa. Era fondamentale che la manifestazione fosse pacifica per rompere alcuni tabù: il ricatto del regime – o me o il caos –, il timore di tornare agli anni Novanta – il decennio dei massacri –, la paura della repressione.
ALCUNI SLOGAN come «Bouteflika dégage» e «Fln dégage» hanno riportato alla memoria le prime manifestazioni delle primavere arabe.
Sarà forse questa la primavera algerina che scoppia in ritardo rispetto alle altre? Troppo presto per dirlo, ma se così fosse dovrebbe fare tesoro delle esperienze altrui.