L’illusione che i nuovi taleban fossero diversi dai vecchi è durata poco. Almeno nei confronti delle donne, vittime predestinate dei fondamentalisti islamici e dei loro regimi. Del resto le afghane lo hanno sempre saputo e provato.
E sulla propria pelle che i diritti se li devono conquistare e difendere. E così, coraggiosamente, decine di donne stanno sfidando gli studenti coranici in piazza, giovedì a Herat e ieri a Kabul e in altre zone del paese.
Le afghane non hanno atteso l’annuncio del nuovo governo per scendere in piazza, l’orientamento dei taleban è apparso chiaro quando le donne sono state respinte dai luoghi di lavoro e le promesse di una possibile partecipazione femminile al governo, secondo la sharia, sono state smentite: le donne potranno lavorare nelle istituzioni governative ma non ad alti livelli.
È stato Mohammad Abbas Stanikzai un leader taleban, in una intervista alla Bbc pashto, ad affermare che nel prossimo governo «potrebbe non esserci posto per le donne». E lo ha più autorevolmente confermato il portavoce dei taleban, Zabiullah Mujahid, riconoscendo il ruolo delle donne come infermiere o per altri lavori di cura, ai quali potranno dedicarsi «seguendo i comandamenti del Corano e sotto la legge della sharia, ma non come ministro». Un Corano e una sharia fatta su misura per i taleban, non essendo com’è noto la sharia una legge, ma un codice di comportamento che deve essere interpretato dalle diverse scuole giuridiche.
E comunque per ora le donne devono rimanere a casa «per motivi di sicurezza», questa giustificazione non è nuova, anche il burqa negli anni 90 lo dovevano portare per motivi di sicurezza. Una sicurezza che non impediva che le donne venissero frustate e lapidate. E allora, come avevamo constatato, non è stato facile per le donne, che avevano introiettato l’insicurezza predicata dai taleban, liberarsi dal burqa. Ma d’altra parte non sarà nemmeno facile per i taleban riportare le donne e tutti gli afghani al 1996.
«Noi rivendichiamo i nostri diritti» ha detto ad Al Jazeera Mariam Ebram, una delle organizzatrici della manifestazione di Herat, e comunque «un governo senza donne non durerà». «Dopo settimane in cui abbiamo cercato contatti con i taleban a tutti i livelli, le donne hanno deciso di far sentire la loro voce. Abbiamo cercato di parlare con loro ma abbiamo visto che, come con i taleban di 20 anni fa, non era possibile. Non c’è nessun cambiamento», ha aggiunto Mariam. Dopo vent’anni è duro riaprire la piaga prodotta dai taleban quando sono arrivati al potere la prima volta. Non che prima e anche dopo il regime dei taleban non ci siano state violenze contro le donne, ma almeno non erano costrette a vivere senza uscire di casa e se lo facevano, con il loro accompagnatore, il Mahram, da sotto il burqa vedevano solo il mondo a quadretti.
Le donne in piazza rivendicano soprattutto il diritto al lavoro, all’istruzione e alla libertà, perché, si leggeva su un cartello alla manifestazione di Kabul, «i diritti delle donne sono diritti universali». I messaggi equivoci mandati dai taleban al loro arrivo a Kabul e probabilmente diretti all’occidente per ottenere un riconoscimento hanno tratto molti in inganno. Nonostante le constatazioni successive tra le manifestanti di Herat e Kabul c’è comunque chi preme per una partecipazione delle donne nel governo.
«Vogliamo lavorare come gli uomini sotto la legge islamica» ha detto Razia una delle attiviste di Kabul a Tolonews. E Shabana Tawana: «Dopo la formazione del governo dei taleban, tutte le donne devono tornare al lavoro. Non dobbiamo permettere a nessuno di sottrarci le conquiste degli ultimi venti anni».
Anche se i vent’anni di occupazione non hanno portato la libertà e la democrazia perché «non ci sarà pace finché ci saranno truppe straniere in Afghanistan», come ci diceva Malalai Joya, ma non si nascondeva il pericolo del ritorno dei taleban. Ora che sono tornati non si arrende, continua a mandare messaggi attraverso i social diventando per molti un punto di riferimento nella resistenza al nuovo regime.
E, per una fatale coincidenza, è uscito alla fine di agosto un docufilm sulla storia degli ultimi 40 anni dell’Afghanistan vista attraverso le vittime delle guerre con Malalai Joya, e Noam Chomsky, dal titolo «In nome del mio popolo».
il manifesto 3 settembre 2021