Battaglia di Megolo, 71 anni dopo | Giuliana Sgrena
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Battaglia di Megolo, 71 anni dopo

Commemorazione della battaglia di Megolo, uno degli episodi più eroici della resistenza e dove persero la vita dodici partigiani tra i quali il capitano Beltrami.

Battaglia di Megolo, 71 anni dopo
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17 Febbraio 2015 - 08.20


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Il 13 febbraio di 71 anni fa, in un degli episodi più eroici della resistenza, cadevano il Capitano Filippo Maria Beltrami, il Cap. Gianni Citterio (Redi), il Ten. Antonio Di Dio, Carlo Antibo, Bassano Bassetto, Aldo Carletti, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta e Elio Toninelli. Ho voluto citare i loro nomi perché il loro sacrificio non si traduca semplicemente in un numero, perché non si perda il valore di ogni singola vita umana sacrificata. Viviamo in un’epoca in cui i morti diventano solo numeri, non hanno nomi, oppure hanno nomi solo quelli che stanno dalla nostra parte e non è detto che sia la parte giusta.

Oggi siamo qui per ricordare la battaglia di Megolo, conclusasi con una carneficina, perché non si possono dimenticare i fatti fondamentali della nostra storia: il sacrificio di questi dodici partigiani fa parte del prezzo pagato per la nostra libertà.

Ho avuto, fin da piccola, il privilegio di sentire raccontare storie, aneddoti, eroismi della resistenza da mio papà, poi, naturalmente, sulla battaglia di Megolo ho letto tra l’altro anche la toccante testimonianza di Gino Vermicelli e il libro di Paolo Bologna.

Ma non tutti i giovani e anche i meno giovani conoscono la storia partigiana ed è veramente inconcepibile che nelle scuole non si approfondiscano queste pagine di storia che hanno segnato la nascita della nostra repubblica. Conoscere per poter apprezzare fino in fondo quei valori che sono in gran parte andati perduti per mancanza di memoria o messi in discussione dal revisionismo storico.

Un paese senza memoria non ha futuro: ho vissuto la celebrazione del 70.mo anniversario della Repubblica dell’Ossola con un grande senso di solitudine, non era presente nessuna rappresentanza delle istituzioni a livello nazionale. E non si è solo trattato di una mancanza: credo non si sia saputo o voluto cogliere il grande contributo dato da quell’esperienza alla affermazione dei valori di libertà e democrazia nel nostro paese, valori che ancora potrebbe rappresentare se ci fosse la volontà di trarre insegnamento da quegli eventi.

Lo dico anche dal punto di vista delle donne per il ruolo che hanno avuto nella liberazione di questo territorio e nella Repubblica dell’Ossola. E oggi leggendo gli scritti delle donne di allora e soprattutto di Gisella Floreanini troviamo descrizioni di situazioni, espressioni di sentimenti che appartengono al vissuto di molte donne di oggi, di molte di noi. La modernità di queste testimonianze ci fanno capire che la resistenza non è finita. Che per realizzare i valori per cui si è combattuto c’è ancora molto da fare.

Questa commemorazione non può dunque essere un fatto puramente rituale, ma deve innanzitutto farci riflettere su quello che succede nel nostro paese e non solo. Spesso ci vantiamo del fatto che l’Europa ha vissuto in pace gli ultimi settant’anni, ma come possiamo rimuovere quello che è avvenuto nella ex-Jugoslavia anche con il nostro contributo alla guerra cosiddetta «umanitaria»? Come si può definire «umanitaria» una guerra? E in Ucraina sta avvenendo la stessa cosa, ma a parti invertite: alla fine degli anni novanta l’occidente appoggiava i separatisti kosovari, oggi appoggia lo stato ucraino contro i separatisti russi. Sempre e comunque guerra. Per non parlare delle guerre che abbiamo esportato. Non ci sono guerre in Europa ma i nostri soldati sono impegnati in scenari di guerra vicini o lontani dal nostro paese.

Eppure basterebbe rispettare la nostra costituzione, che all’articolo 11 ripudia la guerra, per evitare di contribuire alla distruzione di paesi e popoli. E invece con grande ipocrisia spacciamo per missioni di pace gli interventi militari. Da quando le missioni di pace hanno bisogno di carri armati e cacciabombardieri?

Non a caso la nostra costituzione ripudia la guerra, perché i costituenti avevano vissuto la guerra e avevano lottato per costruire la pace sulla giustizia. Ma non è certo l’unico punto fondamentale della nostra costituzione che prima di essere rivista dovrebbe essere attuata nei principi fondamentali (come il diritto al lavoro). Certo la costituzione non può essere un tabù, intoccabile, ma forse la revisione della costituzione nei termini in cui si prospetta oggi non appare come un miglioramento e una garanzia dell’esercizio della sovranità del popolo italiano attraverso le istituzioni.

Libertà, democrazia, uguaglianza, solidarietà, i valori della resistenza devono essere particolarmente difesi in un momento di così difficile crisi economica ma anche per il dramma dei profughi che sbarcano sulle nostre coste in fuga dalle guerre. Guerre che spesso non sono documentate, perché il terrorismo impedisce la presenza di testimoni. La mancanza di informazione verificata e indipendente non sembra preoccupare i governanti perché ormai la precarietà del mondo del lavoro ha ridotto l’informazione a uno strumento di propaganda o a un copiatura da Internet (dove si può trovare tutto e il contrario di tutto), ma questa non è informazione e l’informazione è la base della democrazia. E invece gli spazi della democrazia sono sempre più angusti.

Nel mondo, anche in paesi molto vicini al nostro, dal nord Africa al Medio oriente, popoli che si sono battuti contro la dittatura stanno cercando di individuare la via per un futuro migliore. Hanno fatto delle rivoluzioni per la democrazia, la libertà, la giustizia sociale, ma hanno incontrato e incontrano grandi ostacoli. Questi popoli non hanno avuto la nostra solidarietà, anzi noi fornendo armi alle frange integraliste abbiamo contribuito alla degenerazione di alcune di quelle rivolte. E adesso ci meravigliamo di quello che succede in Libia o in Siria, senza mai fare i conti con le nostre responsabilità. Le nostre e quelle dell’occidente tutto. E ora temiamo che il terrorismo arrivi nelle nostre città – a Parigi è già arrivato – ma non arriva da fuori, ormai è dentro di noi.

Eppure la resistenza italiana contro il nazifascismo è viva nell’immaginario di popoli che lottano per la loro libertà, democrazia, giustizia sociale: non è un caso se nelle piazze di Atene abbiamo sentito cantare «Bella ciao» dopo la vittoria di Syriza. Ma ho sentito cantare l’inno della resistenza, e con molta emozione, anche dalle donne di Kabul dopo la partenza dei taleban! Purtroppo a Kabul i taleban sono tornati ma quelle donne continuano a resistere. Non lasciamole sole.

Pieve Vergonte, 15 febbraio 2015
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