Il cessate il fuoco concordato da Erdogan con il vicepresidente americano Pence per 120 ore (5 giorni, ne restano 4) non ha impedito all’esercito turco di continuare a colpire obbiettivi curdi.
Del resto l’accordo non serviva a dare una tregua ai curdi ma a permettere a Erdogan di evitare uno scontro con gli Usa e a Trump di non dare seguito alle minacce di sanzioni. Che a Trump non interessasse la sorte dei curdi è stato evidente, se ce ne fosse stato bisogno, fin dal momento in cui ha annunciato il ritiro dal Kurdistan siriano, che di fatto rappresentava un via libera a Erdogan per le sue mire espansioniste. Tuttavia a Trump serviva questo accordo ambiguo per calmare le critiche – anche interne – seguite al ritiro.
Durante i 5 giorni di «tregua» i curdi dovrebbero ritirarsi da quella che Erdogan considera «fascia di sicurezza», 30 chilometri all’interno del territorio siriano. Ma perché i curdi dovrebbero lasciare le loro case, il loro lavoro e i loro averi? Anche se si parla di combattenti curdi – Ypg e Ypj – non si tiene conto che non si tratta di soldati di un esercito ma di Unità di protezione con compiti non solo militari rispetto alla popolazione. E se si ritirano i combattenti curdi chi garantisce la sicurezza del popolo curdo? L’esercito turco, quello di Assad o quello di Putin?
Se a Trump interessa solo disfarsi del fardello della guerra in Siria a scapito di combattenti che hanno sconfitto l’Isis, ma che sono considerati a loro volta terroristi, l’Europa dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei rischi che corre con la messa in libertà di migliaia di jihadisti che fanno il gioco di Ankara.
Non è un mistero che gli aiuti – combattenti, armi e soldi – ai jihadisti che hanno combattuto in Siria contro Assad sono passati dalla Turchia, anche se i giornalisti turchi che l’hanno documentato sono in carcere o costretti all’esilio.
In Europa alla solidarietà formale con il popolo curdo, considerato più affine alla nostra concezione dei diritti come lo erano una volta i palestinesi, non corrispondono azioni concrete. E chi ha combattuto a fianco dei curdi è sotto processo a Torino.
A fare la differenza è la concezione laica dello stato, principio nato dalla Rivoluzione francese, ma non per questo appannaggio solo degli europei o degli occidentali.
Non esistono diritti occidentali od orientali, questa divisione è frutto di un relativismo culturale basato sulle diverse appartenenze etnico-religiose. Le donne e gli uomini curdi hanno spazzato via ogni ambiguità nella costruzione nel Rojava di una società basata sulla democrazia dal basso, la laicità, la parità di genere e lo sviluppo compatibile con l’ambiente. Un progetto ambizioso e rivoluzionario persino per gli standard occidentali. La forza dei curdi sta proprio nel loro progetto radicalmente alternativo a quello dello Stato islamico e in nome del quale le Forze siriane democratiche hanno combattuto e vinto la guerra contro i jihadisti.
I numerosi appelli che circolano in sostegno al popolo curdo sono una manifestazione dell’appoggio all’immagine che ci è giunta dei curdi e soprattutto delle combattenti curde. Ma proprio perché il valore di queste donne sta nella coerenza con il loro progetto di società e non si lasciano sopraffare dalla militarizzazione nemmeno quando sono sul terreno di battaglia, anche gli appelli in loro sostegno dovrebbero essere più meditati.
«Non parlateci più di valori occidentali se non sapete difendere il popolo curdo», come titola quello firmato da numerose intellettuali italiane, lascia intendere una qualche supremazia dei valori occidentali, come se fossero quelli a ispirare le donne curde! No, sono i valori e i diritti universali a ispirarle, comuni anche a paesi non occidentali. Non abbiamo il primato dei diritti, nemmeno di quelli delle donne, se le curde stanno realizzando, non senza problemi, la parità di genere che da noi stenta ad affermarsi.
«Le parole non bastano per fermare la Turchia», come ha detto giorni fa la comandante Nassrin Abdallah, che avevo intervistato quando la loro azione stava vivendo tempi migliori. E ha aggiunto: «Stiamo combattendo per tutti, per l’umanità intera, non solo per noi». Le parole non bastano ma hanno il loro peso e chi le pronuncia deve assumersene la responsabilità. Le curde e i curdi stanno combattendo anche per noi, perché i valori che condividiamo sono universali.
il manifesto 19 ottobre 2019
Il cessate il fuoco concordato da Erdogan con il vicepresidente americano Pence per 120 ore (5 giorni, ne restano 4) non ha impedito all’esercito turco di continuare a colpire obbiettivi curdi.
Del resto l’accordo non serviva a dare una tregua ai curdi ma a permettere a Erdogan di evitare uno scontro con gli Usa e a Trump di non dare seguito alle minacce di sanzioni. Che a Trump non interessasse la sorte dei curdi è stato evidente, se ce ne fosse stato bisogno, fin dal momento in cui ha annunciato il ritiro dal Kurdistan siriano, che di fatto rappresentava un via libera a Erdogan per le sue mire espansioniste. Tuttavia a Trump serviva questo accordo ambiguo per calmare le critiche – anche interne – seguite al ritiro.
Durante i 5 giorni di «tregua» i curdi dovrebbero ritirarsi da quella che Erdogan considera «fascia di sicurezza», 30 chilometri all’interno del territorio siriano. Ma perché i curdi dovrebbero lasciare le loro case, il loro lavoro e i loro averi? Anche se si parla di combattenti curdi – Ypg e Ypj – non si tiene conto che non si tratta di soldati di un esercito ma di Unità di protezione con compiti non solo militari rispetto alla popolazione. E se si ritirano i combattenti curdi chi garantisce la sicurezza del popolo curdo? L’esercito turco, quello di Assad o quello di Putin?
Se a Trump interessa solo disfarsi del fardello della guerra in Siria a scapito di combattenti che hanno sconfitto l’Isis, ma che sono considerati a loro volta terroristi, l’Europa dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei rischi che corre con la messa in libertà di migliaia di jihadisti che fanno il gioco di Ankara.
Non è un mistero che gli aiuti – combattenti, armi e soldi – ai jihadisti che hanno combattuto in Siria contro Assad sono passati dalla Turchia, anche se i giornalisti turchi che l’hanno documentato sono in carcere o costretti all’esilio.
In Europa alla solidarietà formale con il popolo curdo, considerato più affine alla nostra concezione dei diritti come lo erano una volta i palestinesi, non corrispondono azioni concrete. E chi ha combattuto a fianco dei curdi è sotto processo a Torino.
A fare la differenza è la concezione laica dello stato, principio nato dalla Rivoluzione francese, ma non per questo appannaggio solo degli europei o degli occidentali.
Non esistono diritti occidentali od orientali, questa divisione è frutto di un relativismo culturale basato sulle diverse appartenenze etnico-religiose. Le donne e gli uomini curdi hanno spazzato via ogni ambiguità nella costruzione nel Rojava di una società basata sulla democrazia dal basso, la laicità, la parità di genere e lo sviluppo compatibile con l’ambiente. Un progetto ambizioso e rivoluzionario persino per gli standard occidentali. La forza dei curdi sta proprio nel loro progetto radicalmente alternativo a quello dello Stato islamico e in nome del quale le Forze siriane democratiche hanno combattuto e vinto la guerra contro i jihadisti.
I numerosi appelli che circolano in sostegno al popolo curdo sono una manifestazione dell’appoggio all’immagine che ci è giunta dei curdi e soprattutto delle combattenti curde. Ma proprio perché il valore di queste donne sta nella coerenza con il loro progetto di società e non si lasciano sopraffare dalla militarizzazione nemmeno quando sono sul terreno di battaglia, anche gli appelli in loro sostegno dovrebbero essere più meditati.
«Non parlateci più di valori occidentali se non sapete difendere il popolo curdo», come titola quello firmato da numerose intellettuali italiane, lascia intendere una qualche supremazia dei valori occidentali, come se fossero quelli a ispirare le donne curde! No, sono i valori e i diritti universali a ispirarle, comuni anche a paesi non occidentali. Non abbiamo il primato dei diritti, nemmeno di quelli delle donne, se le curde stanno realizzando, non senza problemi, la parità di genere che da noi stenta ad affermarsi.
«Le parole non bastano per fermare la Turchia», come ha detto giorni fa la comandante Nassrin Abdallah, che avevo intervistato quando la loro azione stava vivendo tempi migliori. E ha aggiunto: «Stiamo combattendo per tutti, per l’umanità intera, non solo per noi». Le parole non bastano ma hanno il loro peso e chi le pronuncia deve assumersene la responsabilità. Le curde e i curdi stanno combattendo anche per noi, perché i valori che condividiamo sono universali.
il manifesto 19 ottobre 2019