La rivoluzione del sorriso e la farsa delle elezioni | Giuliana Sgrena
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La rivoluzione del sorriso e la farsa delle elezioni

La settimana più lunga dell'Hirak che continua la mobilitazione contro le elezioni del 12 dicembre. Il movimento promuove il «rifiuto pacifico» delle urne.

La rivoluzione del sorriso e la farsa delle elezioni
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

13 Dicembre 2019 - 10.33


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La settimana più lunga della «Rivoluzione del sorriso» – come la chiamano gli algerini – è cominciata il 6 dicembre con il 42.mo venerdì in piazza, una mobilitazione eccezionale perché doveva segnare la massiccia opposizione alle elezioni presidenziali del 12 dicembre. Come ogni venerdì, dal 22 febbraio, le manifestazioni hanno invaso tutte le città dell’Algeria con la partecipazione di donne e uomini di diversi strati sociali e visioni politiche. È la forza dell’Hirak, un movimento esploso contro la candidatura presidenziale, per la quinta volta, di Abdelaziz Bouteflika, ridotto a una parvenza di presidente.

A dare il via a questo improvviso risveglio sono stati i giovani che sono nati e vissuti con Bouteflika, non hanno conosciuto altri presidenti. Con molta creatività hanno trasformato gli inni da stadio in canzoni di lotta. Sono stati questi giovani, che non si portano dentro l’incubo degli anni 90 (il decennio nero) perché non li hanno vissuti, a ridare speranza a un popolo intero. Che non cerca vendetta con la violenza ma è determinato a cambiare il sistema con la mobilitazione pacifica. Nonostante i numerosi arresti e le provocazioni della polizia.

Con il sorriso è riuscito a far dimettere Bouteflika e ad annullare due scadenze elettorali, ma questa volta il regime (pouvoir, dicono loro) è determinato ad andare fino in fondo, costi quel che costi: ha bisogno di una legittimazione attraverso il voto, ai brogli sono abituati. Ma la piazza non vuole accettare questo riciclaggio del sistema attraverso le elezioni: «No a elezioni organizzate dai militari», «Stato civile non militare». Sono gli slogan contro l’uomo forte del regime, il capo di stato maggiore Gaid Salah, che è ricomparso su tutti i giornali per perorare la causa delle elezioni che «tracceranno il cammino del nuovo stato algerino al quale hanno tanto aspirato le generazioni dell’indipendenza».

Ma l’hirak non crede che un’Algeria democratica possa essere costruita dal vecchio sistema di potere e nemmeno dai militari.

Sono passati quasi trent’anni da quando gli algerini speravano che i militari potessero salvarli dall’oscurantismo islamista e garantire uno stato civile, ma la storia avrebbe riservato loro altri bagni di sangue.

La sera dell’imponente manifestazione le tv, pubblica e private, e la radio nazionale hanno trasmesso il dibattito-confronto tra i cinque candidati che si contendono la presidenza. Tutti con legami presenti o passati con il regime: Azzedine Mihoubi, ex ministro della cultura e segretario generale ad interim di Rnd, partito che ha sostenuto Bouteflika; Ali Benflis ex premier che si presenta come oppositore e ha già partecipato a due elezioni presidenziali; Abdelmadjid Tebboune, altro ex premier che fa l’indipendente; l’ex ministro del turismo Abdelkader Bengrina; Abdelaziz Belaid, che dopo aver fatto parte della gioventù sostenitrice di Bouteflika ha fondato il suo partito, il Fronte el Moustaqbel. Il confronto, un inedito per l’Algeria, non ha destato particolare interesse, i candidati non si sono scontrati tra di loro avendo come unico obiettivo quello di cercare di accattivarsi una parte di quel movimento che si oppone alle elezioni con vacue promesse. Sebbene i candidati abbiano limitato la campagna elettorale a qualche incontro in luoghi chiusi protetti dalle forze dell’ordine, e con il pubblico portato dai bus, e in Kabylie nessuno sia riuscito a entrare, per l’Autorità nazionale indipendente delle elezioni (Anie) la campagna elettorale si è svolta in buone condizioni. 

Probabilmente nel calendario elettorale rientrava anche il processo sommario contro ex primi ministri, ministri, politici e uomini d’affari, che si è concluso ieri nel tribunale di Sidi M’hamed. Gli ex premier Ahmed Ouyahia e Abdelmalek Sellal accusati di corruzione e finanziamento illecito della campagna elettorale di Bouteflika sono stati condannati rispettivamente a 15 e 12 anni. La pena massima, 20 anni, è stata invece comminata a Abdeslam Bouchouareb, ex ministro dell’industria in fuga. Pene minori agli altri imputati. Pene esemplari perché «la corruzione è alla base della frattura tra governanti e popolo», ha detto il pubblico ministero. Peccato si tratti solo di una parodia di giustizia che vuole mettere a nudo il sistema Bouteflika senza Bouteflika e che anche gli accusatori ne abbiano fatto parte.

Nella manifestazione del 6 è girata anche la parola d’ordine dello sciopero generale diffusa da alcuni sindacati ma è stata seguita massicciamente solo in Kabylie. Invece tutto l’Hirak si è dato appuntamento per oggi, vigilia delle elezioni, sarà una lunga mobilitazione che durerà anche la notte. Un appello a «un rifiuto pacifico delle elezioni» considerate «una pagliacciata» è stato lanciato dai partiti e personalità che appoggiano l’hirak.

E per non far mancare nulla a questa farsa elettorale è arrivato l’appello al voto di Madani Mezrag, emiro dell’Ais braccio armato del disciolto Fis (Fronte islamico di salvezza). Con un lungo messaggio, uno dei tanti miracolati dal regime ringrazia il ruolo esercitato dall’istituzione militare, affermando che l’esercito «ha risposto a tutte le rivendicazioni dell’hirak».

È solo l’ultima comparsa in un teatro dell’assurdo.

il manifesto 11 dicembre 2019

 

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