l premio Nobel per la pace 2014 è stato assegnato, congiuntamente, alla pachistana Malala Yousafzay e all’indiano Kailash Satyarthi come riconoscimento «per la loro battaglia contro la repressione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’educazione».
Que-sta la motivazione ufficiale che mette insieme il 60enne Satyarthi, attivista indiano per i diritti dei bambini, e la 17enne (la più giovane premio Nobel) Malala, che due anni fa fu gravemente ferita dai taleban per la sua lotta a favore dell’istruzione femminile e contro la sharia (legge coranica).
Ancora una volta il premio Nobel per la pace rinuncia a una scelta netta e preferisce il compromesso politico, non è la prima volta: era successo con Mandela e De Klerk, Arafat Peres e Rabin. Ora mette insieme due persone degnissime ma, guarda caso, appartenenti a paesi storicamente in conflitto fin dalla nascita da una spartizione dell’India del Pakistan (la terra dei puri) nel 1947.
Questa scelta ne accresce il valore politico-diplomatico ma ne sminuisce la portata umanitaria e infatti la motivazione viene ridotta alla difesa dei diritti dei minori. Non che la que-stione dei minori non sia importante, lo è assolutamente, basti pensare allo sfruttamento dei bambini che invece di andare a scuola sono costretti a lavorare o ai bambini soldato; ma la storia di Malala avrebbe meritato un’accentuazione della lotta di una ragazza giovane contro le imposizioni fatte dai taleban in nome della legge coranica, che vede proprio nelle donne le vittime principali.
Certo l’istruzione è fondamentale per tutti i bambini, ma lo è ancora di più per le bambine, perché in molti paesi quando si presenta la scelta su quali figli mandare a scuola a essere favoriti per lo studio sono i figli maschi. Non a caso i taleban impediscono le scuole alle femmine, perché l’istruzione contribuisce all’emancipazione e alla liberazione della donna.
E così i taleban avevano sparato su Malala quando aveva solo 14 anni. Nel suo paese infatti la ragazza era diventata famosa nel 2009 per un diario scritto in urdu sulle atrocità commesse dai fanatici islamisti nella valle di Swat, nel nord ovest del paese, dove vive Malala. Dopo il ferimento la ragazza è stata curata in Gran bretagna e ha potuto portare la sua causa in giro per il mondo e persino alle Nazioni unite.
Nel momento in cui il mondo si sente minacciato dal fanatismo religioso dello Stato islamico in Siria e Iraq e gli Usa in tredici anni di guerra non sono riusciti a sminuire il potere dei taleban in Afghanistan, perché i promotori del pre-mio Nobel di Oslo non hanno avuto il corag-gio di man-dare un messaggio chiaro contro il fondamentalismo?
Quel coraggio invece l’hanno avuto quando si è trattato di premiare uomini potenti come Obama o istituzioni come l’Unione europea che devono ancora dimostrare di aver meritato quel premio, anzi per quello che hanno fatto finora non l’hanno assolutamente meritato. Malala sì, e ce ne rallegriamo perché sicuramente ne farà un buon uso. Come Satyarthi.
il manifesto 10 ottobre 2014