In Marocco non si può lavorare in alcuni settori (come il turismo) se si porta il velo. La regina del Marocco, moglie di Muhammad VI discendente di Maometto e riconosciuto comandante dei credenti, appare in pubblico senza velo. In netto contrasto con le esibizioni «silenziose» della moglie di Erdogan, il quale evidentemente condivide una concezione religiosa secondo la quale «la voce è la nudità della donna».
Ho scelto l’esempio del Marocco perché molte donne che arrivano in Italia dal loro paese senza velo, dopo qualche mese lo portano. Ho chiesto loro il perché. «Per avere il rispetto della mia comunità», mi hanno risposto, «altrimenti, ci dicono, che diventeremo come voi, come le donne che si vedono alla televisione». Certo l’immagine della donna offerta dalla televisione italiana, soprattutto nelle pubblicità, non è delle più edificanti e nemmeno noi ci riconosciamo. Ma per i capi delle comunità islamiche questo è il pretesto per mantenere le donne musulmane isolate e quindi sotto controllo.
Per non essere traviate non imparano nemmeno la nostra lingua e vivono in un contesto isolato, mentre i mariti lavorano e i figli vanno a scuola, quindi sono obbligati ad avere rapporti con il mondo che li circonda. Naturalmente non tutte le donne migranti da paesi musulmani vivono isolate, fortunatamente. Ci sono donne che lavorano, che militano in associazioni di donne per l’affermazione di diritti, per proteggere coloro che subiscono violenze o per lottare contro le mutilazioni genitali femminili. Sono spesso lotte portate avanti senza grande solidarietà da parte del femminismo italiano che preferisce riconoscere in coloro che vogliono difendere una pseudo-identità attraverso il comportamento anche vestiario, la rappresentanza più autentica di quel mondo.
E allora diventa più difficile il cammino delle donne che vogliono emanciparsi. E non ritengo possa considerarsi una forma di emancipazione quella di ragazze che portano il velo per opporsi all’islam moderato praticato dalle loro madri svelate (come sostenuto dal prof. Paolo Naso, il 15 marzo, durante la trasmissione di Radio3 Tutta la città ne parla). Tuttavia questa affermazione sottolinea come il velo è la manifestazione dell’appartenenza a un islam radicale, una versione fondamentalista della religione. Nel Corano non c’è nessun obbligo per la donna di portare il velo, portarlo dunque rappresenta un’adesione manifesta all’islam globale (l’ideologia che sta alla base delle forme più estremiste dell’islam).
Non si tratta nemmeno della difesa di un’identità (che non considero un valore, visto che in suo nome si fanno le guerre) attraverso la tradizione perché il velo (hijab) portato dalle donne musulmane in nome della religione è un velo «omologato» che si è diffuso sul modello del ciador iraniano, imposto in Iran dopo la vittoria di Khomeini.
Dunque oggi ritengo che la decisione della Corte europea sul velo e non solo («le politiche aziendali possono vietare i simboli religiosi per assicurare ”neutralità”») sia un modo, tra i tanti, di combattere l’estremismo islamico – rappresentato spesso inconsapevolmente – da donne che ritengono il velo un obbligo religioso. Questa non è islamofobia. Al contrario.
Perché i guardiani della fede delle donne impediscono loro, nella maggior parte dei casi, di andare in moschea? Perché hanno paura di essere turbati dai loro corpi in un luogo dove l’unico pensiero dovrebbe essere rivolto ad Allah?
Se molte donne musulmane, ancora condizionate dalle loro comunità, si renderanno conto che come molte altre loro sorelle si può essere buone musulmane anche senza portare il velo e avendo un rapporto intimo e personale con la propria fede, forse acquisiranno maggiore autonomia. Ma è questa che i maschi non vogliono, perderebbero il loro potere, illudendosi che il velo rappresenti ancora il modo per controllare la sessualità di una donna.
il manifesto 17 marzo 2017
‘