Erano in centinaia in fila davanti al centro di reclutamento, l”ex ministero della difesa ai tempi di Saddam, nella centrale piazza Maidan a Baghdad, quando un kamikaze si è fatto esplodere. Ha uccidendo 49 reclute e ferite oltre cento. È successo ieri mattina, ore 7,30, in un momento di grande confusione. Secondo le autorità a causare il massacro sarebbe stato un unico kamikaze, che indossava un giubbotto imbottito di esplosivo sotto una divisa militare che gli avrebbe permesso di sfuggire ai controlli. Il centro di reclutamento tuttavia è difficile da controllare perché si trova nel centro della città, in una zona aperta e vicina al terminal degli autobus e a una stazione di taxi, quindi in un”area molto trafficata. Secondo alcuni testimoni oltre al kamikaze vi sarebbe stata anche un”autobomba, forse la causa di un numero così alto di vittime. Centinaia di aspiranti reclute erano attese ieri al centro di reclutamento: era l”ultimo giorno utile per l”arruolamento, che deve servire a completare il numero delle forze di sicurezza che dovranno assumere il controllo del paese in vista del ritiro delle forze combattenti degli Stati uniti previsto alla fine del mese, tra meno di due settimane. E non c”è dubbio che gli attentati, moltiplicati negli ultimi giorni, hanno proprio l”obiettivo di far precipitare la situazione in vista del ritiro delle truppe «combattenti». Con quale scopo? Se, come tutto lascia pensare, gli autori degli attentati sono gruppi di al Qaeda con alcuni affiliati locali, non sono interessati alla fine dell”occupazione del paese ma a combattere una «guerra santa» che trova un terreno più fertile in una situazione fuori controllo, completamente destabilizzata. E se gli americani ritornano in azione – ieri sono ricomparsi immediatamente gli elicotteri Usa nel luogo dell”attentato – poco importa. Del resto le vittime degli attentati sono solo iracheni, ieri erano reclute, altre volte sono i membri dei «Consigli del risveglio» che avevano combattuto i terroristi di al Qaeda con il sostegno finanziario e militare degli americani, altre ancora sono forze di sicurezza. E poi non è forse stato proprio il capo di stato maggiore delle forze armate irachene, il generale Babaker Zebari, a dichiarare nei giorni scorsi che il ritiro statunitense nel 2011 sarebbe prematuro? «Se mi chiedono del ritiro, rispondo ai politici che l”esercito americano dovrebbe restare fino a quando saremo pronti, nel 2020», ha dichiarato il generale a margine di una conferenza al ministero della difesa sullo stato dell”esercito iracheno. Queste affermazioni, inquietanti, sono state lasciate cadere anche perchè Obama non sembra intenzionato a rimettere in discussione il piano di ritiro che permette maggiori investimenti in Afghanistan. Entro la fine di agosto dunque le truppe americane dovrebbero ridursi a 50.000 e non avere più un ruolo combattente ma di addestramento dell”esercito iracheno, e comunque occuparsi di non meglio definite «operazioni di stabilizzazione». Il ritiro, comunque parziale, avviene in un momento estremamente delicato per l”Iraq, a causa del vuoto di potere che si è creato dopo le elezioni del 7 marzo. Le pressioni americane perché si formasse il governo prima del ritiro sono cadute nel vuoto: anzi due giorni fa Iyad Allawi, leader della coalizione laica al Iraqiya, che ha vinto di misura le elezioni con 91 seggi (su un totale di 325), ha interrotto i suoi incontri con l”ex premier Nouri al Maliki (89 seggi) accusandolo di comportamento «settario». Al Maliki in una trasmissione televisiva aveva definito – in modo spregiativo o riduttivo – al Iraqiya un «blocco sunnita», mentre Allawi, sciita, lo definisce nazionalista, anche se il maggiore appoggio alla lista laica è fornito proprio dall”elettorato sunnita. Per tornare al tavolo della trattativa Allawi pretende le scuse di al Maliki. Si sono rifatti vivi ieri anche gli sciiti radicali del Consiglio supremo islamico in Iraq – che insieme a Muqtada al Sadr e al Maliki hanno ricostituito il blocco sciita che aveva garantito il successo elettorale nel 2005. Sono disposti a trattare, ma solo dopo la conclusione del negoziato tra al Maliki e Allawi, sponsorizzato in particolare dagli americani. Mentre il deputato kurdo Arif Tayfor sostiene che il parlamento non potrà essere riconvocato – finora ha tenuto due sedute di quindici minuti – finché non ci sarà un accordo almeno sul nome del portavoce. A oltre cinque mesi dal voto tutto sembra dunque in alto mare, nonostante le manovre portate avanti sia dagli americani che dagli iraniani, che nelle settimane scorse hanno inviato il più radicale degli sciiti, Muqtada al Sadr, a Damasco per incontrare il laico Allawi. Si gioca su tutti i tavoli dunque. E, per tentare di sbloccare la situazione, Hillary Clinton ha inviato a Baghdad una delegazione guidata dal suo assistente per il Medio oriente Jeffrey Feltman, che per ora ha incontrato il vicepresidente Tareq al Hashemi. Lo stallo intanto lascia mano libera ai fautori della destabilizzazione che rischia di far ricadere il paese nella violenza più feroce. L”inizio del Ramadan, una settimana fa, non ha diminuito lo spargimento di sangue, anzi quello di ieri è stato l”attentato più sanguinoso dall”inizio del mese sacro per i musulmani. Non c”è da meravigliarsi: il mese di Ramadan è anche quello dove il jihad («guerra santa») acquisisce maggiori meriti per l”al di là e quindi le azioni violente contro il «nemico» si rafforzano. L”Iraq, in questo, non fa eccezione.’
Strage tra reclute
Caos a Baghdad
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18 Agosto 2010 - 11.52
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