Bandiera nera sulla Bosnia | Giuliana Sgrena
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Bandiera nera sulla Bosnia

I mujahidin da eroi di guerra a "cellule dormienti" di al Qaeda

Bandiera nera sulla Bosnia
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8 Luglio 2007 - 11.52


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E” venerdì, l”ora della preghiera, numerosi barbuti affluiscono alla moschea re Fahd, la più fastosa tra le numerose costruite con i petrodollari sauditi e i fondi di altri paesi islamici dopo la guerra. Davanti al grande recinto, che ospita anche un”organizzazione umanitaria, sempre saudita, bancarelle che vendono abiti, in stile islamico «ortodosso», e tanti libri religiosi. Sui gradini che portano al grande cancello, Abu Hamza e i suoi due figli distribuiscono volantini per protestare contro la decisione del governo di revocare la cittadinanza a circa 400 mujahidin che hanno combattuto in Bosnia. I «veterani» riuniti nell”organizzazione Ensarije (non ancora autorizzata dal governo), di cui Abu Hamza è il leader, protestano per questa «discriminazione» che penalizza gli «afro-asiatici». Sono i mujahidin arrivati in Bosnia nel 1992-93 attraverso la Croazia, provenienti da diversi paesi islamici – dall”Afghanistan al Maghreb, dalla Cecenia al Pakistan – ma anche dall”occidente. A sponsorizzare questo esercito del jihad era l”Arabia saudita con il beneplacito della Cia dei tempi di Clinton.Il passaporto come premioDa parte sua il presidente bosniaco Alja Izetbegovic gratificava i combattenti che si sono distinti per il loro comportamento trucido (mostravano i nemici catturati senza testa) con il passaporto bosniaco. Si dice che persino Osama bin Laden ne abbia ricevuto uno, senza nemmeno passare dalla Bosnia, ma allora non era ancora famoso come dopo l”11 settembre. Gli accordi di Dayton (fine 1995) prevedevano un rimpatrio dei combattenti stranieri (la destinazione spesso non era il paese di origine ma un altro territorio su cui continuare il jihad), ma oltre un migliaio rimasero in Bosnia. Alcuni di loro nel frattempo avevano messo su casa, altri avevano un lavoro nelle organizzazioni umanitarie che hanno fatto da copertura alla diffusione del wahabismo. Finita la guerra c”era ancora molto lavoro da fare per reislamizzare la Bosnia e i soldi non mancavano. I mujahidin avevano scelto, fin dal loro arrivo, come terreno privilegiato la Bosnia centrale, a maggioranza musulmana e se non lo era ancora lo sarebbe diventata. E dopo la guerra si erano concentrati a Zenica, Travnik e, in particolare, a Bocinja, diventato il centro della comunità dei mujahidin (con autorizzazione del presidente Izetbegovic), dove su 600 abitanti almeno 100 erano stanieri. Lo stile di vita imposto a Bocinja era quello dei taleban afghani: hidjab per le donne, barba per gli uomini, vietati alcol, fumo e musica, obbligo per le preghiere.Le donne che non portavano il velo venivano rapate, i mujahidin giravano con una sciabola e alle ragazze che avevano vestiti troppo corti indicavano la lunghezza di rigore con una sciabolata e se qualcuno osava fare il bagno in costume gli si sparava addosso. Un wahabita locale, Jusuf Barcic, autoproclamatosi sheikh dopo essere stato in Arabia saudita, con i suoi sermoni aveva provocato molti scontri con esponenti dell”islam bosniaco. Barcic era arrivato a proibire alle donne del suo villaggio Kalesija di uscire di casa. Inoltre nel disprezzo della legge istituita si rifiutava anche di rispettare i semafori e forse proprio per questo è rimasto vittima di un incidente stradale un paio di mesi fa. «Errori dei fratelli», li definisce Abu Hamza, allora capo della comunità dei mujahidin di Bocinja, che ora si mostra molto moderato perché teme la deportazione. Ad Abu Hamza è stata revocata la cittadinanza e il suo nome è in una lista di 15 persone ritenute «pericolose per l”ordine pubblico».Ci dà appuntamento alla moschea di Ilidja, alla periferia di Sarajevo. Abu Hamza abita di fianco alla moschea in una delle case assegnate ai veterani, un edificio a due piani, uno per le donne e uno per i maschi di famiglia, separati anche da una porta con tanto di chiave. Con un atteggiamento affabile, che contrasta con il suo aspetto trucido – robusto, testa quasi rasata, lunga barba folta e riccia, djellaba nera -, ci fa salire in uno studiolo ricavato dall”abbaino. Ha con sé i sei figli, tre dei quali nati da un precedente matrimonio della moglie con un imam rimasto ucciso in guerra.«Ci sono i leccapiedi Usa»Medico, studiava a Belgrado quando è iniziata la guerra, trasferitosi in Bosnia, racconta, è subito entrato a far parte della difesa territoriale, «ma viste le incompatibilità tra mujhidin e infedeli», nel 1993 è stata costituita l”unità dei mujahidin, che faceva parte dell”esercito ma con regole particolari: non si beveva, non si fumava, si pregava. E si combatteva sotto un”altra bandiera, che mostra con orgoglio, appesa alla porta in bella mostra. E una bandiera nera con la scritta: «Non c”è altro dio al di fuori di allah e Maometto è il suo profeta». Il piccolo corridoio è pieno di vestiti, «avevo un negozio, spiega, di abiti e libri islamici, ma dopo la revoca della cittadinanza, ho dovuto chiuderlo, ora mi arrangio». E come vive? «Di carità», risponde con fare sornione. Non deve comunque avere problemi, vista la grossa jeep parcheggiata sotto casa e i figli che studiano, le due ragazze sono già all”università. E la moschea chi l”ha costruita? I locali, qui vive anche gente che viene dal Sangiaccato (enclave musulmana in Serbia dove, per la posizione strategica, tra Montenegro e Kosovo, si sono concentrati estremisti islamici per sfuggire a controlli. Qui, per la polizia serba, è stato trovato un campo d”addestramento per mujahidin).Revocata la cittadinanza, Abu Hamza ha fatto ricorso alla Corte suprema, respinto il ricorso ha chiesto il permesso di soggiorno, rifiutato, ora chiede asilo politico per poter stare vicino ai figli. Quando, lo scorso anno, si è posto il problema della revisione della cittadinanza e la conseguente revoca di circa 400 passaporti, Abu Hamza aveva subito portato in piazza i suoi sostenitori wahabiti da tutta la Bosnia, ci dicono al settimanale Dani, tutti nascosti sotto la copertura di organizzazioni umanitarie – molte ormai chiuse dopo il 2001. Abu Hamza ammette di essere in grado di mobilitare molte persone e per questo è ritenuto un «pericolo per l”ordine pubblico», ma «non ho mai avuto nessun processo», aggiunge. L”anno scorso voleva anche presentarsi alle elezioni ma non aveva le carte in regola. «I problemi sono inziati con l”11 settembre 2001, da allora siamo diventati un pericolo, prima eravamo eroi, ora la gente non ti saluta nemmeno, si è diffusa una islamofobia (peccato che l”80% degli abitanti di Sarajevo sono musulmani), soprattutto i combattenti sono considerati legati a al Qaeda, ci considerano “cellule dormienti”. Ora anche negli organismi dello stato e della comunità islamica ci sono leccapiedi degli Usa. C”è anche chi dice che è colpa nostra se la Bosnia non entra in Europa», sostiene il veterano. E aggiunge: «non c”è più rispetto dei diritti umani». Fa una certa impressione sentire parlare di diritti umani dai tagliatori di teste e in un paese dove, anche da parte loro, sono stati commessi i peggiori crimini.Wahabismo contro tradizioneIn molti chiedono giustizia in Bosnia, come in tutta l”ex-Jugoslavia. Il problema è che prima, quando servivano, i mujahidin venivano protetti anche dagli americani, ma ora non servono più, anzi dopo l”11 settembre anche gli Usa si sono resi conto che costituiscono un pericolo. Ma lo sono soprattutto per i bosniaci. Probabilmente è la vostra visione dell”islam che non corrisponde a quella bosniaca, facciamo notare. «Noi non facciamo altro che riprendere la tradizione negata dal comunismo e da Tito». Per la verità non si tratta di tradizione ma di scuola wahabita che affonda le sue radici in Arabia saudita, se anche le donne anziane dei villaggi come Travnik si sono ribellate alle imposizioni dei mujahidin. Ma il rischio che chi ha commesso crimini possa trasformarsi in vittima esiste, se la giustizia dipende da logiche politiche. Molti dei mujahidin privati della cittadinanza sono già fuggiti nei paesi vicini, e se altri dovranno farlo per evitare conseguenze, le uniche vittime saranno i figli.Nuzeiba, che studia filosofia, teme l”allontanamento del padre, il figlio più piccolo del veterano si butta per terra e prega Allah. Quando chiediamo di conoscere il parere della moglie, Abu Hamza si schernisce: «Mia moglie non vuole parlare con i giornalisti e io rispetto il suo volere». Poi ci mostra una fotografia della famiglia: la moglie appare come un fantasma tutta coperta di nero. Comunque non avremmo potuto vederla. ‘

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