"Non siamo bottino di guerra" | Giuliana Sgrena
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"Non siamo bottino di guerra"

Intervista a Hassn Jumaa Awad, presidente sindacato petroli

"Non siamo bottino di guerra"
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29 Maggio 2007 - 11.52


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Gli Usa non sono riusciti ad imporre la loro deadline – fissata per il 30 maggio – per l”approvazione della legge per la privatizzazione del settore degli idrocarburi che, attraverso il production sharing agreements, garantirebbe alle compagnie straniere il controllo dei campi petroliferi iracheni. Il piano americano è depositato in parlamento e sarà probabilmente discusso in agosto, sostiene Hassan Jumaa Awad, presidente della federazione dei sindacati del petrolio, cui aderiscono 26.000 lavoratori petroliferi. A ritardare la discussione è stata l”immediata reazione degli iracheni, soprattutto dei lavoratori del settore.In Italia su invito di Un ponte per e della «Campagna contro i profitti di guerra» Hassan Jumaa Awad, terrà oggi a Roma una conferenza su «Petrolio iracheno tra vecchi interessi e nuovi». La Campagna contro i profitti di guerra ha lanciato una petizione per chiedere all”Eni di ritirarsi dal gruppo International tax & investment center per l”Iraq e di non partecipare allo spartimento del bottino di guerra petrolifero. Inoltre chiede al governo di monitorare l”operato della compagnia (la petizione è sul sito www.unponteper.it).«A febbraio – racconta Awad – abbiamo organizzato un”assemblea dei lavoratori del settore che si è conclusa con il rifiuto a lavorare con compagnie straniere se non a determinate condizioni. La legge non rispecchia le aspirazioni del popolo iracheno. Favorisce l”entrata delle compagnie straniere e introduce la privatizzazione attraverso il cosiddetto production sharing agreements. Dopo la protesta, che ha coinvolto anche esperti petroliferi che hanno consegnato un loro documento al consiglio dei ministri, la definizione dell”accordo per le concessioni è cambiata, ma la sostanza resta la stessa». Non sono solo i lavoratori petroliferi ad essere contrari alla legge. «Esistono posizioni molto diverse – continua Awad – anche tra il governo autonomo del Kurdistan e il ministero dell”energia». Uno dei punti in discussione riguarda l”articolo 111 della costituzione: «Il petrolio e il gas appartengono a tutto il popolo iracheno in tutte le regioni e le province». L”Alleanza kurda vorrebbe aggiungere una clausola in cui si chiarisce che «gli introiti del petrolio vengono distribuiti in modo equo e la quota delle regioni e delle province produttrici viene fissata come indennizzo dei danni di produzione». I kurdi propongono inoltre di precisare che «il governo federale e i governi delle regioni e delle province produttrici stabiliscono insieme e di comune accordo le politiche strategiche necessarie allo sviluppo delle risorse del petrolio e del gas». I timori dei kurdi riguardano anche lo status di Kirkuk. Un referendum, per ora rinviato, dovrà decidere se la regione appartiene al Kurdistan oppure no, questione delicata dal momento che dai campi petroliferi di Kirkuk si estrae il 40% del petrolio iracheno. Per ora, comunque, sostiene il presidente della federazione dei petroliferi, «tutti – la Confederazione sindacale di Bassora, di Kirkuk, ma anche di Baghdad e di altri luoghi – sono d”accordo che la legge in discussione è molto negativa per il popolo iracheno».Ci sono diversi approcci alla questione…La costituzione irachena è di tipo federale, questo si riflette anche sul petrolio e porta ad una concorrenza per rivendicare il controllo delle risorse energetiche. Noi pensiamo che debba essere il governo centrale a controllare le risorse naturali, i cui proventi non possono essere legati al territorio ma devono appartenere a tutti gli iracheni, senza discriminazione tra le diverse aree.A quali condizioni siete disposti a lavorare con le compagnie straniere?Noi abbiamo bisogno di tecnologie per sviluppare il settore ma non possiamo accettare che ci portino via tutti i profitti. Il primo problema è la percentuale che resta alle compagnie e quella che va allo stato. Il secondo è la durata delle concessioni, che deve essere legata al tipo di investimento programmato e quindi non può essere di trent”anni.Quali sono le attuali condizioni di lavoro nel settore del petrolio?Non ci sono cambiamenti apprezzabili per i lavoratori del petrolio: il salario è di circa 300 dollari al mese, non è bassissimo per l”Iraq, ma inadeguato al costo della vita. Inoltre non abbiamo garanzie: né assistenza sanitaria né ammortizzatori sociali.La produzione di petrolio continua ad essere inferiore ai tempi di Saddam..Il petrolio estratto dalla Southern oil company è di 2,1 milioni di barili al giorno, di cui 1,7 esportati. Ai tempi di Saddam erano 3,5. E” un problema di investimenti. Quando è iniziata l”invasione alcuni pozzi sono stati colpiti, noi siamo riusciti a continuare la produzione recuperando pezzi da altri impianti, con uno sforzo patriottico. Solo con un appello al patriottismo si potrà arrivare all”aspicato obiettivo di 4 milioni di barili.Che cosa può fare l”Italia?Il governo italiano può fare pressioni affinché non venga approvata la legge sul petrolio e invece vengano varate leggi per garantire migliori condizioni di vita ai lavoratori. L”Italia ha partecipato all”occupazione dell”Iraq, noi chiediamo che dia ospitalità a un certo numero di profughi garantendo loro una vita dignitosa finché non potranno tornare. Inoltre chiediamo all”Italia di ospitare un congresso della società civile irachena.’

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