Ecco le stragi che Bush nasconde | Giuliana Sgrena
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Ecco le stragi che Bush nasconde

A Put Khorasan, nella fortezza di Qala-i-janghi, nel carcere di Shebargan, tra i testimoni della strage di talebani ad opera di mujaheddin dell''Alleanza del nord, soprattutto di milizie del generale uzbeko Dostum, «coordinate» dai consiglieri della

Ecco le stragi che Bush nasconde
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18 Giugno 2002 - 11.52


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Uscendo da Shebargan, superato il fiume Khorasan, il cui letto è praticamente asciutto, abbandoniamo la strada principale per addentrarci del deserto Dasht-i Layli che si estende fino al Turkmenistan. La giornata ventosa solleva nubi di sabbia che ci permettono a malapena di vedere i cammelli che ci vengono incontro. I cammellieri che sfidano questo paesaggio inospitale sono gli unici conoscitori di meandri apparentemente tutti uguali. Con il loro aiuto e quello di un abitante del villaggio di Put Khorasan (ponte sul Khorasan) riusciamo ad individuare quella striscia di sabbia – venti metri per dieci – su cui non ci sono sterpaglie e arbusti perché la terra è stata rimossa di recente. Sparsi un po” ovunque brandelli di vestiti, strisce di stoffa nera che servono da turbante – quello nero è riservato a chi ha frequentato per almeno quattro anni una madrasa (scuola coranica), oppure è un sayed, discendente della famiglia del profeta -, il segno distintivo dei taleban mentre i mujahidin portano il pakul, il tipico cappello di panno. Ai margini di quella che è una delle tante fosse comuni sparse nel deserto dove sono stati sepolti migliaia di taleban e militanti di al Qaeda – le cifre variano, ma la più credibile, secondo un funzionario internazionale, si situano tra i 2.000 e i 2.500 -, si trova una discarica di immondizia, forse serviva a coprire il fetore dei cadaveri che i passanti dicono di aver sentito ai tempi in cui erano stati depositati qui e lasciati esposti alle intemperie; solo di recente sono stati coperti di sabbia. Sul lato opposto alla discarica sono ancora ben evidenti nel terreno i solchi tracciati dalle ruote di mezzi pesanti, probabilmente i bulldozer venuti a coprire quel che rimaneva dei cadaveri. «Io ho contato almeno tredici container, sono arrivati dopo la battaglia di Konduz (inizio dicembre, ndr), e hanno scaritato qui i cadaveri di afghani, pakistani e ceceni», dice un abitante del villaggio di cui non possiamo rivelare il nome – come per tutti gli altri che ci forniscono informazioni per motivi di sicurezza. Come sono stati uccisi? «Alcuni sono morti soffocati durante il trasporto. Ma alcuni container erano macchiati di sangue». A Konduz, dopo una violenta battaglia, 5.000 combattenti – taleban, pakistani, ceceni e «arabi» – si erano arresi all”Alleanza del nord. 700-800 erano stati portati a Qala-i Janghi, la fortezza del signore della guerra di Mazar-i Sharif, generale Rashid Dostum, gli altri trasferiti in container, 300 per volta, nella famigerata prigione di Shebargan. Ma ne sarebbero arrivati solo 3.000. Gli altri sono finiti nelle fosse comuni. Nella fossa di Put Khorasan una missione delle Nazioni unite, composta da due medici forensi e un funzionario del Commissariato dell”Onu per i diritti umani e alcuni funzionari dell”Unama (la missione Onu per l”Afghanistan), all”inizio di maggio ha individuato quindici corpi, sepolti a un metro e mezzo di profondità, tre sono stati prelevati per l”autopsia. La fisionomia e i vestiti indicavano che erano tutti pashtun e la loro morte sarebbe avvenuta per soffocamento visto che non portavano segni di ferite o di traumi gravi, secondo quanto riferito dal portavoce dell”inviato speciale del segretario generale delle Nazioni unite Manoel de Almeida e Silva.E le fosse restano incustoditeTuttavia, come sostengono anche altre testimonianze raccolte negli ultimi tempi, in particolare dal regista irlandese Jamie Doran che nei giorni scorsi ha presentato al parlamento europeo e al Reichstag di Berlino i primi venti minuti di riprese del documentario che sta preparando sul «Massacro a Mazar», guardie avrebbero sparato contro i container, all”interno dei quali i prigionieri stavano soffocando. Lo avrebbero confermato persino alcuni militari di Dostum. Altri taleban e «arabi», invece, ci racconta un altro testimone, sono stati portati nel deserto con le mani legate dietro la schiena e uccisi, poi buttati nelle fosse. E diversi testimoni dicono anche che le milizie di Dostum erano assistite in questo lavoro sporco dagli americani. Chiediamo conferme e nessuno sembra mettere in dubbio la partecipazione degli americani. «Perché meravigliarsi? Sono gli americani a condurre la campagna antiterrorismo, sono loro i responsabili, che lo abbiano fatto direttamente o meno. Per questo anche le indagini fatte non avranno conseguenze», dice un funzionario dell”Onu che vuole, ovviamente, mantenere l”anonimato. E infatti, nonostante le denunce circostanziate del rapporto presentato da John Hefferman e Jennifer Lessing, dell”organizzazione americana «Physician for Human Rights», al premier ad interim afghano Karzai e agli Stati uniti la richiesta, poi sottoscritta anche dalla missione Onu, di proteggere queste fosse comuni perché non vengano cancellate le prove è rimasta senza risposta: la fossa che noi abbiamo visto è ancora assolutamente incostudita. E così tutte le altre. E proprio per questo il regista Doran ha voluto anticipare alcune scene del suo documentario.Tutti gli abitanti di Shebargan conoscono i segreti sepolti nel deserto e sono pronti a raccontarli, ma nessuno li denuncia. Perché? Solo per paura del sanguinario generale uzbeko che spadroneggia a Shebargan, Rashid Dostum? No, coprono questi crimini perché li ritengono una giusta vendetta contro i taleban e gli «arabi», nei confronti dei quali il disprezzo è ancora maggiore. «Nella fossa di Silow i taleban hanno sepolto circa 3.000 hazara – l”etnia che più ha opposto resistenza alla loro avanzata, ndr – massacrati dopo la conquista di Mazar-i Sharif, è giusto che abbiano fatto la stessa fine», dice il nostro «testimone».Comunque, Mazar-i Sharif è stata la tomba dei taleban. Prima inaccessibile perché considerata la città più aperta e «laica» dell”Afghanistan, feudo di Dostum, nel maggio del 1997, i taleban erano stati attirati in quella che si sarebbe trasformata in una trappola dal generale Malik. Il timore di fare la fine del fratello che era caduto in una imboscata ordita da Dostum aveva indotto Malik a tradire l”alleato e a garantire l”appoggio ai taleban. L”insolita alleanza tra pashtun e uzbechi aveva colto tutti di sorpresa, l”avanzata era stata fulminea e Dostum costretto a fuggire. Gli uzbeki si erano illusi di poter condividere un potere con i taleban che però puntavano, come sempre, al potere assoluto. A ribellarsi furono gli hazara che guidarono la rivolta. I taleban non erano in grado di far fronte ad una guerriglia in una città sconosciuta. Circa 600 taleban venivano massacrati, un migliaio arrestati mentre cercavano di fuggire dall”aeroporto. Malik riprendeva il controllo della situazione, della quale approfittava, a sud, anche il comandante Massud che bombardando il tunnel di Salang bloccava l”unica via di fuga dei taleban che restavano chiusi in trappola. Era la più grande disfatta subita fino ad allora dai taleban che perdevano circa 3.000 uomini, tra morti e feriti.Poi sarebbe venuta quella definitiva, con l”ultima sacca importante di resistenza a Konduz. Dopo giorni di cambattimenti e molte perdite, i taleban e gli alleati «arabi» si arrendevano all”Allenza del nord e agli americani. Circa 800 dei prigionieri venivano portati nella fortezza di Dostum, Qala-i Janghi. Il forte ottocentesco, che assomiglia a un castello medioevale con le alte mura di fango merlate, si erge imponente – almeno un chilometro di diametro – nel deserto a una ventina di chilometri da Mazar-i Sharif. Dall”alto, camminando sulle mura, si vedono le due costruzioni strette e lunghe, una con molte cupole, l”altra piatta che normalmente deve fungere da magazzino, dove erano stati richiusi i prigionieri. Si vedono anche gli squarci provocati dalle bombe sganciate dagli Ac-130 e Black hawk americani per sedare, si disse, una rivolta scoppiata tra i detenuti armati. Come mai i detenuti erano armati? abbiamo chiesto al generale Sheja-uddin, uno dei responsabili dei servizi di sicurezza di Mazar, rimasto sempre incredibilmente al suo posto da quando, 19 anni fa, era stato nominato dal regime filocomunista di Najibullah. «Quando sono arrivati era sera, erano tanti, 500, abbiamo fatto depositare le armi, ma i prigionieri non sono stati perquisiti. Poi abbiamo scoperto che avevano indosso granate e bombe a mano. La sera stessa tre si sono fatti saltare uccidendo anche il generale Nader Ali Khan (appena nominato capo della provincia di Balkh, ndr). Quando abbiamo cercato di separarli per perquisirli i soldati sono stati attaccati, così è scoppiata la battaglia». E allo scontro hanno partecipato anche truppe speciali americane e britanniche, come in tutte le operazioni di Enduring freedom. Il bilancio, secondo il generale: 80 agenti uccisi, 86 prigionieri portati via e gli altri tutti morti, compreso un americano. Un agente della Cia…incalziamo. «Era uno che stava riprendendo con una telecamera, forse un giornalista …», dice spudoratamente il generale Sheja-uddin, che deve aver imparato da Dostum l”arte del voltafaccia. Ma chi comandava le operazioni a Qala-i Janghi? «Il generale Dostum e cinque comandanti americani», dice Haq Mohammad, uno dei militari responsabili dell”accesso alla fortezza, un fedele del generale uzbeco, che era qui anche allora. Secono lui i prigionieri si sarebbero impossessati anche del deposito di armi che ci indica, dietro le due costruzioni usate come prigione. E ci conferma che in questa postazione militare prima non erano mai stati richiusi prigionieri e che non ce ne sono più dopo che i sopravvissuti sono stati trasferiti. I morti invece sono finiti, come tutti gli altri, nelle fosse comuni.Nel compound che ospita la sede dei servizi di sicurezza tra i ritratti di Dostum – che non ha più il controllo di Mazar passato nelle mani del suo rivale tagiko Atta Muhammad, ma che fino alla nomina del nuovo governo è viceministro della difesa -, uno mostra il generale in una improbabile veste «pacifista» che indica la cartina dell”Afghanistan e dice: «E” ora di passare dalle armi alla penna». In questa sede, anche se in costruzioni isolate sono ancora rinchiusi 23 prigionieri (11 pakistani e 12 afghani), ritenuti particolarmente pericolosi. Riusciamo a visitarli, alcuni, afghani, stanno pregando e ci ignorano, tra di loro anche un ragazzino molto giovane. Accanto in un”altra cella, altri afghani, uno, 36 anni, barba lunga, era il responsabile della sicurezza di Mazar ai tempi dei taleban. Era arrivato in Afghanistan con i taleban dopo aver vissuto in Pakistan in un campo profughi con la famiglia. L”altro lavorava per i taleban a Shebargan. I pakistani sono messi anche peggio, sono rinchiusi in celle praticamente sotto terra con un unico pertugio che lascia passare solo qualche raggio di luce. Tra di loro un giovane che dice di essere stato ingannato e convinto a venire in Afghanistan senza sapere esattamente cosa avrebbe fatto e dopo qualche giorno di combattimento si è ritrovato prigioniero. Più convinti sono invece altri tre prigionieri sulla sessantina, o anche più, con la lunga barba bianca, uno dei quali è evidentemente sofferente. Erano stati mandati qui da un piccolo partito religioso, la Shariat-i Mohammad, a sostenere la propaganda dei taleban, dovevano spronare la gente a resistere. Sono estremamente combattivi e rivendicano di essere venuti nel nord dell”Afghanistan a portare il vero islam, quello dei taleban. Subito nasce un battibecco con i nostri accompagnatori – il direttore della prigione e un funzionario della sicurezza – che dicono di essere stati loro, afghani, a islamizzare i pakistani quando erano ancora indiani hindù. In fondo alla cella fa sentire la sua voce anche l”unico detenuto comune, sempre pakistano, che è stato arrestato per contrabbando di aquile. Questi uccelli sono fra i pochi sopravvissuti a 23 anni di guerra e vengono venduti agli arabi per migliaia di dollari: sono usati per cacciare in riva al mare piccoli uccellini che aumenterebbero la virilità, una sorta di Viagra del Golfo.Sono prigionieri probabilmente destinati a marcire in queste carceri senza un processo, a meno che i pakistani vengano trasferiti nelle carceri del loro paese grazie ad un accordo con il governo di Islamabad. Difficilmente saranno comunque liberati vista la loro ostinazione, la stessa che li ha indotti a resistere per tre giorni nella scuola Sultan Razia. Un altro massacro, ci racconta Nasrin, una donna di Mazar. «Nella scuola erano rinchiusi circa 900 taleban, pakistani e “arabi”, che non volevano arrendersi, alcuni sono riusciti a scappare, altri sono stati catturati, mentre 570 sono stati uccisi dai bombardamenti americani e dai militari. I loro corpi sono finiti nelle fosse comuni di Shore Dasht».Nell”inferno dei recinti di ShebarganChi è sopravvissuto ai massacri di Mazar e al viaggio dentro i container è stato rinchiuso nel famigerato carcere di Shebargan. I prigionieri arrivati a dicembre erano circa 3.000, ci dice il direttore del carcere, il generale Akhtar Mohammed, un sosia del trucido Dostum, in tuta mimetica che, slacciata per il caldo, lascia intravedere una insolita cannottiera blu a fiorellini gialli. 120 di questi prigionieri sono stati prelevati dalla Cia e dalla Fbi per interrogatori. Si parla anche di torture inflitte dagli americani ma non abbiamo trovato testimonianze dirette, tranne il fatto che alcuni detenuti presentano lesioni nervose irreversibili per essere rimasti per troppo tempo con le mani legate dietro la schiena. Per visitare le celle occorre un permesso speciale, ma per intervistare il direttore riusciamo a superare l”enorme porta con i grossi chiavistelli e anche la grata di ferro che funge da seconda protezione della prigione. Dall”entrata non si vedono i blocchi dove sono rinchiusi i prigionieri, collocati all”interno del secondo recinto, si può solo intuire l”estensione del penitenziario, che comunque nei giorni peggiori era stracolmo di detenuti. Nei giorni dei grandi arrivi, nelle celle costruite per cinque persone erano ammassati fino a 40 detenuti, ci dice il generale, e riuscivano a farsi una doccia solo ogni venti giorni. «Non potevano nemmeno sedersi», ci racconta un testimone. Dopo l”ultimo rilascio (circa 500 prigionieri), tre settimane fa, sono rimasti 1.270 detenuti, di cui 590 pakistani. Le testimonianze dei prigionieri liberati sono drammatiche: alcuni non riuscivano più nemmeno a deglutire per la malnutrizione e riuscivano ad ingurgitare solo cibo liquido o acqua zuccherata. Sebbene la riduzione dei detenuti e la distribuzione – terminata – di cibo da parte della Croce rossa abbia reso la situazione un po” meno drammatica, la malnutrizione continua ad essere uno dei problemi principali, insieme a quelli di respirazione, febbre, malaria, scabbia, dolori al corpo per le botte, raccontano Mario Ninno e Habib i due infermieri di Emergency, che da quasi un mese ha iniziato un intervento nel carcere. E hanno cominciato col fare ripulire le celle e distribuire coperte e vestiti. Il problema è che le visite avvengono con una turnazione blocco per blocco e quindi l”assistenza è limitata, dice Mario. Si dice comunque che gli afghani dovrebbero essere liberati dopo la Loya jirga, per i pakistani invece occorrerà un accordo con il governo di Islamabad. Finora, molti degli afghani per uscire hanno pagato i responsabili del carcere: da 83 a 830 dollari, secondo l”importanza del detenuto.’

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