La guerra e i suoi figli a Kabul | Giuliana Sgrena
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La guerra e i suoi figli a Kabul

Viaggio negli orfanatrofi della capitale afghana, dove vivono, studiano e lavorano - e mangiano, quando ce n''è - gli orfani. Le vere vittime del conflitto'

La guerra e i suoi figli a Kabul
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29 Novembre 2001 - 11.52


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Abdul Ghafar, 65 anni, barba bianca e un berretto di lana in testa per ripararsi dal freddo, ricorda quando, nel 1960, era stato in Italia per le Olimpiadi. Allora era un atleta: “a Roma ho corso i 100 metri in 10.2 secondi”, racconta con nostalgia. Ha lasciato l”atletica quando si è laureato in medicina, ma non ha abbandonato lo sport: è andato a Leningrado – “per me è sempre Leningrado, anche se adesso si chiama San Pietroburgo”, dice – a specializzarsi in medicina sportiva. Fino a dieci anni fa ha fatto l”allenatore al Politecnico di Kabul, poi con l”età e i tempi che correvano se n”è andato in Pakistan, a Peshawar. Ma dopo un anno è tornato in Afghanistan per mettere su una clinica, “non a Kabul, dove non c”era pace, ma nella regione di Paktia”. La clinica serviva anche per dare aiuto ai più bisognosi e agli handicappati.Comincia così l”attività umanitaria di Abdul Ghafar che dal 1994 è tornato a Kabul per costruire l”orfanotrofio “Care”. Nel centro della città, in due stanzette, ospita una sessantina di bambini, la maggior parte orfani, che vengono qui per frequentare la scuola alla quale altrimenti non potrebbero accedere. Appartengono tutti a famiglie molto bisognose, dice, mentre ci mostra un dossier che contiene le schede dei bambini, fotografati con la loro famiglia o i parenti. Il numero dei bambini – di cui il 60% sono maschi e il 40% femmine – che frequentano “Care”, in classi miste, sono diminuiti durante i bombardamenti, ma ora stanno tornando, racconta il medico. Non avete mai avuto problemi con i taleban, vista la presenza delle bambine? “Molti, a volte venivano a chiedere informazioni, altre minacciavano di chiudere la sede, noi sostenevamo che si trattava di bambine di età inferiore agli otto anni e che quindi potevano frequentare la scuola e che comunque si trattava di orfani senza assistenza anche da parte del governo dei taleban, e qualcuno doveva pur pensarci”, risponde Abdul Ghafar. Qui i bambini hanno anche un pasto, oltre ai corsi di matematica, dari, farsi e qualche insegnamento basilare di religione – ma niente Corano e soprattutto niente arabo, “sono contrario”, dice Abdul. E chi finanzia? Tutte donazioni individuali che provengono da afghani emigrati, soprattutto negli Stati uniti. Ora, su nove insegnanti di “Care” sei sono donne, ma hanno cominciato a lavorare solo una settimana fa, dopo la fuga dei taleban, come Safia, una ragazza di 27 anni, che durante gli anni bui ha insegnato nelle scuole clandestine.I tempi stanno cambiando dunque, Abdul Ghafar ha fiducia nel cambiamento? “Non ho fiducia negli uomini armati”, risponde. La conferenza di Bonn può portare a qualche risultato? “Sono se le pressioni dell”Onu indurranno gli anziani ad accettare le decisioni. La situazione è difficile: i paesi vicini, l”Iran e la Russia, non vogliono la pace perché in competizione con l”argentina Bridas per la costruzione dei gasdotti che dovrebbero convogliare il gas dell”Asia centrale”.Allora quale può essere la strada da seguire per trovare la pace? “Innanzitutto bisogna disarmare tutti i gruppi armati, poi indire una Loya Jirga (l”assemblea, secondo la tradizione dell”Afghanistan) che porti alle elezioni a cui possano partecipare tutti gli afghani. Ma dopo il disarmo, perché chi ha le armi non accetta la volontà popolare”. Tra le foto mostrateci da Abdul abbiamo visto anche la moglie, anche lei medico, che ha contribuito a molte delle sue attività umanitarie, ma ora si trova in Turkmenistan per permettere alle due figlie di studiare.Una famiglia moderna che mal si concilia con l”Afghanistan di questi tempi. E comunque nella Loya Jirga, auspicata da Abdul Ghafar, non hanno mai partecipato le donne. L”assenza delle donne nei momenti decisionali non pregiudicherebbe il futuro?, gli chiedo. “Le donne fanno parte della nostra società e devono partecipare alle decisioni, a partire dalla conferenza di Bonn”, risponde convinto l”ex-medico sportivo.Lasciamo “Care” dopo aver visto anche i ragazzi che dopo la scuola fanno tappeti su un balcone gelido per guadagnare qualche soldo: per ogni metro quadrato vengono pagati 300.000 afghani, meno di dieci dollari, e per farlo occorrono circa 20 giorni.La condizione dei bambini è drammatica in Afghanistan, anche se non esistono cifre di riferimento perché i taleban non ne fornivano ed è obiettivamente difficile fare statistiche in un paese dilaniato da 23 anni di guerra e continuamente attraversato da ondate di profughi. Un dato approssimativo parla di circa 50.000 vedove solo a Kabul, sugli orfani non ci sono nemmeno stime ma non c”è dubbio che questo è uno dei drammi di questo paese. I bambini, come in tutti i paesi poveri, si arrabattano per recuperare qualche spicciolo: molti fanno i lustrascarpe, altri fanno lavoretti al bazar, altri ancora vanno a rovistare nell”immondizia per recuperare carta o plastica. E in genere non vanno a scuola. Tranne quelli che sono stati recuperati da Aschiana, una organizzazione non governativa pakistana che ha allestito cinque centri a Kabul, dove assiste circa 1.700 “bambini di strada”, molti dei quali sono figli di profughi. Prima erano tutti maschi, dice Wali, uno degli operatori sociali, ma da quando i taleban se ne sono andati abbiamo accolto anche le bambine. Oltre alla scuola ricevono anche un pasto, ma ora che è Ramadan non si cucina e quindi i bambini si portano a casa una razione di riso per la famiglia.Il riso è anche l”unico alimento ancora a disposizione nell”orfanotrofio Daruleitan, nella zona sud di Kabul, quella completamente distrutta, proprio di fronte all”ex ambasciata sovietica. Ma la riserva è sufficiente solo per una settimana, dopo di che “saremo costretti a chiudere se non ci arriveranno aiuti”, dice rassegnato Amirden, uno dei responsabili. Fino a tre mesi fa, prima degli attacchi alle torri di New York e al ritiro degli occidentali dall”Afghanistan, l”orfanotrofio era sostenuto dalla ong britannica Children in crises e dalla Canadian relief foudation. Dalla loro partenza non si sono più sentiti, i contatti si sono interrotti: da allora non c”è stata più carne e ora manca persino il pane.Sono 450 i bambini che frequentano quella che nell”era dei taleban era una madrasa (scuola coranica), dove c”erano anche 100 bambine completamente recluse dietro un recinto ricoperto da lastre di ferro. Anche questi bambini tornano a casa la sera, tranne sedici di loro che da un mese e mezzo vivono nell”orfanotrofio perché non hanno dove andare. I bambini sono in fila per una manciata di riso in un piatto di latta dove non resterà nemmeno un chicco. Anche il personale, 64 insegnanti, di cui 33 donne, da quattro mesi non ricevono più lo stipendio di 1.200.000 afghani (circa 75.000 lire). Stiamo abbandonando la desolazione dell”orfanotrofio quando arriva un camion di pasta. Forse si è trovata una soluzione all”italiana.’

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