La primavera sconfitta non si arrende

I tunisini chiedono al presidente Kais Saied di dimettersi, dopo il successo del boicottaggio delle elezioni legislative: solo l'8,8 per cento ha votato. Ma il presidente che ha assunto tutti i poteri sembra determinato a restare. Fino a quando?

La primavera sconfitta non si arrende
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

21 Dicembre 2022 - 14.07


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L’unico a non accorgersi di aver perso l’appoggio dei tunisini è il presidente Kais Saied, sostenuto ormai solo da un suo stretto entourage che approfitta dell’ossessione autoritaria dell’ex professore universitario per recuperare uno scanno in quel parlamento che è ormai svuotato dei suoi poteri. La totale sfiducia nei confronti di Saied si è espressa con una risibile partecipazione alle urne (8,8 per cento degli iscritti alle liste elettorali) il 17 dicembre, anniversario dell’immolazione del giovane Mohamed Buazizi che nel 2010 aveva innescato la rivolta poi estesasi, in diverse forme, ad altri paesi arabi. I risultati sono stati diversi, solo la Tunisia sembrava aver salvaguardato quei principi per cui aveva lottato contro la dittatura di Ben Ali (al potere dal 1987): democrazia, giustizia sociale, lotta alla corruzione, ma il processo democratico è irto di ostacoli e richiede tempo e determinazione: il dispotismo è sempre dietro l’angolo. In nome degli interessi del popolo si possono compiere le peggiori nefandezze: lo si è visto con gli islamisti di En-nahdha, l’affiliazione tunisina dei Fratelli musulmani, con lo scontro tra partiti che avevano paralizzato il parlamento, con il ritorno dell’autoritarismo di Kais Saied.

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Il presidente, paladino dei senza partito, eletto nell’autunno del 2019 con oltre il 70 per cento di voti si era sentito tanto forte da assumere tutti i poteri dotandosi di una nuova costituzione fatta su sua misura (approvata in estate con il 27,4 per cento degli aventi diritto) e una legge elettorale che ha portato al risultato di domenica. Una legge che esclude i partiti dalla competizione, si vota solo per candidature individuali, si vince con il sistema maggioritario nei vari collegi, dove c’è un solo candidato questi viene automaticamente eletto, inoltre è stata annullata la candidatura alternata di genere, che aveva portato molte donne all’Assemblea nazionale. La distorsione del processo elettorale è evidente, ma il presidente punta sul secondo round, perché la partecipazione – ha detto – si valuta sui due turni.

Mentre Saied porta avanti il suo disegno autoritario il paese è in ginocchio: manca il latte, il burro e le medicine, gli ingegneri, i medici, i docenti universitari abbandonano il paese a migliaia. Mancano i soldi per gli insegnanti e migliaia di bambini restano a casa.

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Non è quindi difficile capire la reazione del popolo tunisino, che non sembra disposto ad arrendersi. Tutta l’opposizione alle urne (tutti i partiti) chiede le dimissioni di Saied e l’annullamento delle elezioni. Sul piano economico dura è la reazione del potente sindacato Ugtt (Unione generale dei lavoratori tunisini) che accusa il presidente di aver trattato segretamente con il Fmi. Il segretario generale Noureddine Taboubi ha dichiarato che il sindacato «si opporrà energicamente al ritorno del colonialismo economico» riferendosi a un esperto francese che aveva partecipato all’elaborazione di un progetto per la riforma del settore pubblico. 

Nel quadro dell’opposizione si distingue per determinazione, intransigenza, carisma l’avvocata Abir Moussi, presidente del Partito desturiano libero (Pdl), che mobilita i tunisini contro gli «usurpatori» dell’Istanza superiore indipendente per le elezioni (Isie) che hanno cercato di minimizzare il risultato elettorale. Le richieste del Pdl sono: dimissioni di Saied, nuove elezioni presidenziali e legislative secondo gli standard internazionali, dimissioni del governo di Najla Buden. Unica opzione accettata da Saied che ha annunciato la nomina di un nuovo governo a impronta economica.

Moussi ha delle discriminanti ben chiare: una politica patriottica che si rifà ai valori dell’indipendenza, il ripristino di equilibri finanziari sulla base degli interessi del paese, senza dipendenze dagli Usa, dalla Francia o dal Fmi, nessun accordo con gli islamisti, difesa dei diritti delle donne. Il dossier Fmi di cui si discute da mesi è stato rinviato a gennaio mentre le riserve in valuta della Banca centrale della Tunisia calano vertiginosamente e sarebbero ora in grado di coprire poche settimane di importazioni. L’instabilità politica è destinata a peggiorare la situazione e potrebbe portare la Tunisia sull’orlo della bancarotta.

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Non ci sono mediazioni possibili, la rottura è inevitabile, mi dicono da Tunisi.  Se si dovesse andare alle elezioni il partito di Abir Moussi, secondo i sondaggi, raggiungerebbe oltre il 40 per cento. Si ritorna a Ben Ali (l’avvocata era stata anche segretaria del suo partito, Rcd)? No, a Bourghiba, mi rispondono da Tunisi, con orgoglio!

il manifesto, 21 dicembre 2022

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