Per il giudice il marito può imporre il velo integrale

Succede a Perugia: donna marocchina segregata in casa e costretta a indossare il niqab denuncia, ma per il giudice fa parte della sua cultura e archivia

Per il giudice il marito può imporre il velo integrale
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20 Novembre 2021 - 08.46


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È agghiacciante la motivazione con cui la Procura di Perugia ha archiviato la denuncia di Salsabila Mouhib, marocchina, contro il marito che le usava violenza e la costringeva, quando raramente usciva di casa, a indossare un velo integrale (il niqab che lascia una fessura solo all’altezza degli occhi). La denuncia della donna è stata archiviata perché «la condotta di costringerla a tenere il velo integrale rientra, pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati». E per quanto riguarda le violenze «non sarebbe mai stata minacciata di morte, né avrebbe subito aggressioni fisiche tali da costringerla alle cure sanitarie».

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Innanzitutto, colpisce l’ignoranza di un procuratore che sostiene che «il niqab rientri nel quadro culturale dei soggetti», non è così: la donna e l’uomo non provengono dall’Afghanistan dei taleban. E, anche se fosse, i diritti universali, come i diritti delle donne e in particolare il diritto all’integrità fisica, non possono essere sottoposti a discriminazioni che solo un inaccettabile relativismo culturale può far concepire. Torna inevitabilmente alla mente un caso che ci aveva fatto inorridire: nel 2007 un cameriere sardo che viveva in Germania era stato condannato a 6 anni di carcere per aver sequestrato e stuprato l’ex fidanzata, ma un giudice del tribunale di Hannover gli aveva ridotto la pena perché : «Si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell’imputato. È un sardo. Il quadro del ruolo dell’uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante». Allora ci eravamo scandalizzati e oggi?

Donne che arrivano in Italia e si trovano a vivere in un incubo peggiore di quello del loro paese, che prendono il coraggio di denunciare un marito che le fa vivere in schiavitù rischiando la vita e per tutta risposta incappano in un procuratore della «civile» Italia che le condanna a subire le angherie perché non sono state minacciate di morte. Purtroppo, molte donne, italiane e/o straniere, che hanno denunciato il marito, l’ex, il compagno, sono morte prima di trovare protezione da parte delle istituzioni. Siamo alla vigilia del 25 novembre, giornata mondiale della violenza sulle donne, molti messaggi invitano a denunciare le violenze subite: «chiamate il 1522» dice anche uno spot del governo. Ma non basta denunciare, chi denuncia ha bisogno di protezione.

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Salsabila, 33 anni, arrivata in Italia per ricongiungimento familiare, ha avuto tre figli, ma è sempre rimasta segregata in casa, potendo uscire solo per andare dal medico e per partorire, naturalmente con il niqab. Il marito ha concesso malvolentieri che i figli potessero frequentare la scuola. Ora Salsabila vive in una località segreta, per paura di essere rintracciata dal marito e i tre figli, che le sono stati affidati dall’autorità giudiziaria del suo paese, al momento del divorzio, vivono in Marocco con la nonna materna. Chissà forse in Italia avrebbero concesso l’affidamento congiunto! L’avvocato che ha presentato ricorso chiede semplicemente il riconoscimento dei diritti di libertà sanciti dalla Costituzione italiana. Finché l’Italia non si deciderà a garantire uguali diritti per chi vive in Italia non potrà chiedere il rispetto dei doveri.

Ma la procura di Perugia non è la prima volta che inciampa sulla violenza di genere. All’inizio di giugno aveva chiesto l’archiviazione per l’accusa di maltrattamenti di una donna incinta da parte del marito. L’anno scorso la donna, italiana, aveva denunciato il marito per violenza – che subiva da dieci anni – dopo essere finita al pronto soccorso e aveva deciso di chiedere aiuto a un centro antiviolenza. Ma per la procura si trattava di lesioni lievi. In questo caso la decisione non è stata motivata con «le impronte culturali», anche se visti i casi di femminicidio degli ultimi giorni in Italia, pare che nessuna diversità etnico-culturale sia rintracciabile, solo la comune cultura misogina e patriarcale.

il manifesto 20 novembre 2021

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