Non abbandoniamo Ikram Nazih

Il caso della giovane italo-marocchina condannata a tre anni e mezzo per blasfemia in Marocco, paragonata alla detenzione di Zaki in Egitto, non gode della considerazione dei media

Non abbandoniamo Ikram Nazih
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

7 Agosto 2021 - 15.46


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Perché tanta reticenza da parte dei media a parlare del caso di Ikram Nazih, paragonato a quello di Patrick Zaki? Ikram, giovane ventitreenne italo-marocchina è stata condannata in Marocco a tre anni e mezzo di carcere e a una multa di 50 mila dirham, poco meno di 5mila euro, per blasfemia. La colpa: aver condiviso una vignetta su Facebook in cui si ironizzava sulla sura 108  del Corano – detta dell’Abbondanza – definendola un «versetto del whiskey». Di fronte alle reazioni ostili provocate Ikram aveva cancellato il post che però era già stato notato da un’associazione religiosa marocchina che l’aveva denunciata per blasfemia. Il fatto è del 2019.

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Ikram Nazih, nata a Vimercate (vicino a Monza) da genitori marocchini, ha frequentato il liceo a Bergamo e ha acquisito la cittadinanza italiana, oltre a quella marocchina. A Marsiglia, dove frequentava l’università, stava per ottenere la laurea in giurisprudenza, quando si è recata in Marocco per trascorrere con i parenti la festa del Sacrificio. Al suo arrivo è scattato però l’arresto per la denuncia dell’associazione religiosa e la successiva condanna di primo grado. Contrariamente al caso di Zaki, ancora in attesa di giudizio dopo 18 mesi di carcere, per Ikram la sentenza è stata rapida. Inspiegabile l’indifferenza – a parte una petizione che circola su change.org  e che ha ottenuto finora circa 40mila firme – di fronte a un caso che dovrebbe interpellarci direttamente: una donna condannata per blasfemia, in nome della difesa della religione – in questo caso l’islam. Il reato di blasfemia è molto insidioso e permette in nome di una interpretazione religiosa di condannare a pene pesanti (fino alla morte) cittadini che rivendicano un pensiero laico.

Finora non sono valse le promesse della Farnesina, espresse come risposta a una interrogazione in senato, per trovare una soluzione al caso. Anzi, la doppia nazionalità della giovane donna, quella italiana e marocchina, sarebbe di intralcio: la convenzione dell’Aia, infatti, non prevede una protezione diplomatica di un cittadino con doppia cittadinanza in uno dei due paesi coinvolti. Quindi l’Italia non può intervenire in Marocco a favore di Ikram Nazih! Allora c’è da chiedersi a che cosa può servire la cittadinanza italiana per Patrick Zaki chiesta al governo con una mozione approvata dalla Camera dei deputati. Un bel gesto per mettersi la coscienza a posto?

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La coscienza sporca invece è sicuramente quella di Davide Piccardo, direttore della rivista islamica La luce, che in una lettera al re Mohammed VI del Marocco ha chiesto la grazia – non concessa – in occasione della festa del Sacrificio per quella «scriteriata sorella», Ikram. C’è anche una pregiudiziale di genere in questo giudizio e nell’indifferenza di chi ritiene che le donne se la vanno sempre a cercare?  Una grazia chiesta da Piccardo non perché un simile reato dovrebbe essere abolito in tutto il mondo, anzi «la blasfemia è una colpa grave, sostiene, nei confronti di Dio e verso i credenti e non metto in discussione il diritto-dovere dello stato marocchino di procedere in giudizio per reprimerla».

Fortunatamente in Italia il reato di blasfemia è stato abolito anche se solo nel 1999 e fino al 1995 riguardava solo la fede cattolica, fino al 1984 religione di stato.

L’impegno per la liberazione di Ikram Nazih dovrebbe essere l’occasione per chiedere la liberazione di tutti i condannati per blasfemia, numerosi in tutto il mondo, alcuni dei quali rischiano la pena di morte (Mauritania, Pakistan, Iran, Nigeria), uno strumento usato spesso da regimi autoritari per eliminare gli oppositori: come si può infatti intervenire su una interpretazione del credo religioso? Tanto più che nell’era dei social network basta la condivisione di un post anche se subito cancellato o un click per incorrere in una pena capitale. La notizia dell’ultimo caso della strumentalizzazione di questo reato arriva proprio mentre scriviamo: la liberazione da parte della polizia di un ragazzo di undici anni (con problemi mentali) accusato di blasfemia per aver urinato vicino a un seminario locale nel Punjab (Pakistan) che ha provocato l’assalto a un tempio hindu da parte di un gruppo di musulmani. 

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La reazione così blanda nei confronti del Marocco è forse dovuta all’opinione diffusa che l’islam praticato nel regno di Mohammed VI è considerato «moderato» o per il timore di essere accusati di islamofobia? Quando si tratta di diritti umani, soprattutto di diritti delle donne, non esistono differenze tra le varie interpretazioni religiose.

il manifesto 7 agosto 2021

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