Falluja, senza i marines

in città riprende la vita. La libertà di stampa

Falluja, senza i marines
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3 Aprile 2009 - 11.52


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Non tutte le notizie che arrivano dall”Iraq sono negative, ancora una volta l”eccezione è costituita da Falluja. La città simbolo della resistenza, distrutta due volte dagli americani nel 2004 e poi isolata è tornata nelle mani degli iracheni.«La situazione è cambiata soprattutto a partire dela giugno del 2007, da quando la polizia irachena e i gruppi tribali, con l”appoggio di esponenti religiosi, hanno ripreso il controllo della città. Da allora il numero delle vittime della violenza politica è crollato, in un anno abbiamo registrato meno vittime di quante prima del 2007 ne registravamo in un solo giorno», ci spiega Salam Khaled, giornalista di Falluja, corrispondente della radio Dar el salam. Anche Salam ha partecipato nei giorni scorsi alla Conferenza in solidarietà con la società civile irachena. Ora la società civile si può esprimere anche a Falluja, dopo che sono stati cacciati i gruppi legati ad al Qaeda che uccidevano quadri, intellettuali, medici, religiosi e poliziotti, ricorda il giornalista. «L”esperienza passata, sostiene Salam, ha insegnato che al Qaeda non è migliore degli Usa e che non ci si può fidare né dei jiahdisti né degli americani».Salam ci mostra il badge con il quale poteva entrare a Falluja quando solo i residenti potevano passare: la città era circondata da enormi mura di cemento con solo sette varchi di accesso. Tutti gli uomini di Falluja – tra i 5 e i 55 anni – dovevano avere un tesserino dove erano registrati tutti i dati, le impronte digitali e anche l”iride. Ora invece il controllo è nelle mani degli iracheni, gli americani si sono ritirati nella base fuori dalla città e Falluja ha potuto riprendere la sua vita.«A Falluja il 2008 è stato l”anno della ricostruzione: sono stati ricostruiti due ponti importanti, 25 scuole e altri edifici pubblici. La città è stata riaperta ai non residenti. I problemi che avevano impedito la circolazione negli anni scorsi avevano bloccato la città, la riapertura ha invece permesso una rapida ripresa economica». Falluja si trova infatti in un punto strategicamente importante sulla strada che da Baghdad porta ad Amman o verso la Siria. Le imprese di trasporti sono sempre state una delle maggiori risorse della città, finché la guerra non aveva paralizzato ogni passaggio.Falluja è stata per lungo tempo inaccessibile anche ai giornalisti, ora anche l”informazione è facilitata?«Il grande ostacolo al nostro lavoro è l”ignoranza delle forze dell”ordine sul ruolo del giornalista. I poliziotti pensano che i giornalisti siano solo causa di problemi e quindi vengono umiliati e a volte anche arrestati. Quindi è molto difficile recuperare dati e informazioni», sostiene Salam Khaled.In Iraq tuttavia i giornalisti non sono più nel mirino come qualche anno fa. «La sfida dei giornalisti in Iraq è cambiata, sostiene Hadee Jalu del Jfo (Journalistic freedoms observatory). Negli ultimi anni si contavano i morti, oggi si contano le violazioni delle libertà di espressione. Si sono registrati progressi, anche nella protezione dei giornalisti, ma i giornalisti sono bloccati nello svolgimento del loro lavoro: non possono andare sul luogo dove accadono i fatti, a volte sono aggrediti, non hanno accesso alle informazioni. C”è anche una immaturità professionale, la maggior parte dei giornalisti agiscono più con emotività che con professionalità. Il numero di giornalisti in Iraq è altissimo, sono circa 10.000 di cui la decima parte sono donne. Quindi se prima dovevamo concentrarci a proteggere la vita di un giornalista oggi invece siamo impegnati ad ottenere la libertà di stampa».Esiste una legge sulla stampa?«C”è un progetto di legge presentato dal sindacato per regolare la libertà di stampa, ma noi dell”Osservatorio siamo contrari: la libertà non può essere delimitata da una legge, caso mai la legislazione può occuparsi della protezione del giornalista e di garantire lo svolgimento del suo lavoro. Crediamo che una legge possa essere utilizzata dallo stato per controllare la stampa invece che garantirne la libertà», conclude Hadee Jalu.’

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