Zarqa, la città degli iracheni invisibili

In Giordania i profughi hanno paura di farsi vedere

Zarqa, la città degli iracheni invisibili
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25 Gennaio 2008 - 11.52


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Gli iracheni arrivano alla spicciolata, sono per lo più donne, velate, di una certa età, gli uomini, soprattutto se giovani, hanno paura di farsi vedere in giro. «Alcuni sono già stati rimpatriati», spiegano. Ci troviamo nell”edificio di una ong, dove si distribuiscono aiuti, a Zarqa. Una cittadina di circa mezzo milione di abitanti a una ventina di chilometri da Amman sulla strada per l”Iraq, ma la distanza tra le due città si è andata sempre più assottigliando per l”enorme sviluppo di entrambe. Tuttavia il tempo per raggiungere la capitale non è diminuito, anzi, nelle ore di punta gli enormi ingorghi rendono il percorso interminabile. Prima di diventare famosa per aver dato i natali a quello che era considerato il leader di al Qaeda in Iraq, Abu Mussab al Zarqawi (ucciso nel 2006), era nota per la presenza del primo campo profughi, costruito nel 1949 dalla Croce rossa internazionale, per accogliere le decine di migliaia di palestinesi che attraversarono il Giordano dopo essere stati cacciati dalla loro terra con la creazione dello stato di Israele. Dopo quasi sessant”anni il campo, ora gestito dall”Unrwa (l”agenzia dell”Onu per i profughi palestinesi), è ancora popolato da migliaia di palestinesi che vivono in misere condizioni, ai quali, si dice, si siano aggiunti anche iracheni.Sono passati molti anni dall”arrivo dei primi profughi palestinesi che ora costituiscono almeno un terzo della popolazione giordana, alcuni di loro sono riusciti a migliorare le loro condizioni di vita e hanno potuto lasciare le case più fatiscenti agli ultimi arrivati, gli iracheni, quelli meno abbienti che non hanno potuto installarsi ad Amman.Anche se è convinzione, certamente con un fondo di verità, che in Giordania sono arrivati gli iracheni più ricchi e in Siria quelli più poveri. Sicuramente i primi iracheni a trasferirsi in Giordania, alla vigilia dell”inizio della guerra nel 2003, erano quelli benestanti. Alcuni di loro portavano con sé il bottino accumulato dal regime di Saddam. A trasformare Amman, con la costruzione di nuovi quartieri in gran parte vuoti o popolati solo in estate da sauditi e gente del Golfo, sono stati i soldi di «Saddam». Con i dollari iracheni si sono costruiti i palazzi, che al momento della vendita fruttavano una percentuale a chi aveva fatto da mediatore per la costruzione. Così è avvenuto il riciclaggio del danaro di Baghdad. Certamente gli uomini del regime non soffrono la fame e nemmeno temono l”espulsione. Diverso è per gli esponenti del partito Baath dei livelli più bassi, o per le loro famiglie.Sicuramente la maggior parte dei profughi che incontriamo a Zarqa non sono in grado di condurre una vita decente, o forse non lo sono più, perché hanno speso tutto quello che avevano portato con sé. La maggior parte, pur non avendo i mezzi per sopravvivere, non è però registrata nelle liste dell”Alto commissariato per i profughi (Unhcr) anche se questo permette alle famiglie più povere di avere delle razioni di cibo ogni due mesi, più un kit igienico. Dei 750mila profughi iracheni, fino al novembre del 2007, solo 51.035 erano registrati presso l”Unhcr. E molti solo perché sono stati convinti e rassicurati dalle Ong – che lavorano con l”Unhcr – che li hanno «scovati» sul terreno e hanno cominciato a distribuire loro gli aiuti alimentari. Ma sono soprattutto le donne a venire a ritirare i sacchi di riso, zucchero, legumi, olio, distribuiti a Zarqa, e anche nel nord, a Irbid, dall”ong Terres des hommes (Tdh) Italia. Trascinano i pesanti sacchi giù per le scale fino alla strada dove contrattano con i taxisti il prezzo della corsa per arrivare a casa. In tutto sono 800 le famiglie a beneficiare degli aiuti distribuiti da Tdh con un progetto finanziato dall”Unhcr. Non si tratta solo di cibo ma anche di sapone, coperte e vestiti.Nell”edificio, utilizzato da Tdh a Zarqa, fervono ancora i lavori, l”ong non si limita infatti a distribuire aiuti ma sta preparando uno spazio per attività didattiche (con una biblioteca e una sala per computer), ricreative e supporto psicologico.Al contrario della Siria dove i profughi – di confessioni diverse: sunniti, sciiti, cristiani, sabei, etc. – occupano interi quartieri visibilmente «irachizzati», qui gli iracheni – quasi tutti sunniti – sono invisibili. Eppure non sono pochi: circa 750mila iracheni (contro 1,5 milioni in Siria) su una popolazione di meno di 6 milioni di abitanti, oltre il 12 per cento del totale, una presenza che sta creando tensioni nel paese. Sebbene gli iracheni in fuga abbiano potuto entrare in Siria e in Giordania senza visto non hanno il riconoscimento di «profughi», sono considerati «ospiti», con tutta l”ambiguità del caso. Come in Siria non possono lavorare, fatta eccezione per quei laureati con specializzazioni di cui la Giordania è carente, soprattutto in campo sanitario, che vengono assunti presso ospedali o università. Mentre i ricchi possono ottenere la residenza depositando in banca l”equivalente di 100.000 dinari (100.000 euro). Gli altri, finora, quando entravano avevano un permesso di soggiorno di tre mesi, ma dopo l”introduzione del visto da parte della Siria anche la Giordania lo ha fatto, sebbene la misura non sia ancora applicata. Fra poco sarà difficile ottenere un visto come lo è già per la Siria.I problemi psicologici sono enormi per grandi e bambini. I risultati, diffusi il 22 gennaio, di uno studio realizzato dall”Unhcr in Siria – con interviste a 754 profughi, che hanno riferito anche delle famiglie per un totale di 3.500 persone – sono estremamente allarmanti: l”89,5 per cento soffre di depressione, l”81,6 di ansia e il 67,6 di Post traumatic stress desorder. Non si era mai raggiunta una percentuale così alta di traumatizzati, in Kosovo erano il 25 per cento e in Afghanistan il 42,5. Non potendo lavorare gli uomini, almeno nella stragrande maggioranza, cadono in depressione. Molti sono laureati fuggiti alle minacce dalle milizie e ora costretti all”ozio, altri si sono visti portare via le case durante la pulizia etnica dei quartieri di Baghdad, altri semplicemente sono scappati di fronte alla violenza, che non ha risparmiato i bambini, testimoni di orrende esecuzioni.E le notizie che ricevono dall”Iraq non sono rassicuranti: non c”è sicurezza e continuano i rapimenti. Imad, una donna che è arrivata qui con quattro figli, racconta del rapimento del marito nel 2006, nel quartiere di al Dora, nella parte meridionale di Baghdad, della fatica per raccogliere i 10.000 dollari richiesti per il riscatto. Ma lo sforzo non era servito a nulla, il marito è stato trovato morto dopo il pagamento del riscatto. Recentemente è stato rapito anche il fratello del marito, racconta Imad, e la famiglia non sa cosa fare: «prima, almeno, se pagavi liberavano il rapito, ora invece spesso viene ucciso».In Giordania fino all”autunno scorso i figli degli iracheni che non avevano la residenza non potevano frequentare la scuola pubblica e quelle private, costose, erano inaccessibili per la maggior parte. Su pressione internazionale – supportata da donazioni – dall”inizio di questo anno scolastico gli alunni iracheni sono ammessi, ma spesso a scuola non ci vanno: si vergognano perché hanno perso anni di scuola, vengono presi in giro dai loro compagni. Così si aggravano i problemi psicologici per figli e genitori che spesso non sono in grado di soddisfare le richieste dei figli. E spesso i figli sono numerosi.Abu Ali ha dieci figli, l”ultimo è appena nato, vive da tre anni in una casa umida e gelida, si entra da una porticina di ferro e si devono superare sacchetti di rifiuti prima di arrivare alla scala che porta al primo piano. Paga, o dovrebbe pagare, 90 dinari giordani (90 euro) per l”affitto. Lavora come trasportatore ma non ce la fa più per i dolori reumatici e l”unico sostegno è rappresentato dal figlio che fa il venditore di té, sempre con il terrore di essere fermato dalla polizia di frontiera.Poco lontano sempre a Zarqa incontriamo una famiglia di sabei, arrivati nel 2003. A Baghdad stavano bene: avevano una gioielleria e avevano anche comprato una casa. Ma un giorno sono arrivati «uomini che lavorano per il governo e ci hanno buttato fuori», racconta Nasir, il padre. Ha due maschi e due femmine, le ragazze si sono sposate con due giordani, ma la più giovane, che ha un bambino di due anni, un anno fa è stata abbandonata dal marito, che è sparito. Il figlio maggiore è tornato in Iraq perché non sopportava le umiliazioni e il minore non esce di casa perché ha paura, passa le giornate a letto. Nasir ha perso una gamba, gliel”hanno dovuta tagliare per una cancrena. Nessuno della famiglia lavora, ricevono gli aiuti alimentari dell”Unhcr, ma Nasir ha bisogno di medicine per curare il diabete ed evitare che la cancrena avanzi.Incontriamo altri iracheni nel quartiere Jabal al Hashemi alla periferia di Amman: qui l”affitto costa meno, ma sempre tanto per chi non ha soldi e nemmeno lavoro. Le donne reagiscono con maggior vigore alla malasorte, qui come a Damasco, ma mentre in Siria tutte le donne erano velate, qui in maggioranza non lo sono, tranne Faiza che non dimentica nemmeno una preghiera. Ci incontriamo con un gruppo di loro a casa di Nidhal: con l”aiuto di Faiza, che sta distribuendo microcrediti, vogliono organizzare un centro in cui le donne si possano ritrovare, discutere, fare corsi di formazione e trovare il modo di sopravvivere. Nidhal è arrivata ad Amman nove mesi fa, con il figlio e la nuora: «era diventato pericoloso vivere ad Abu Ghraib», racconta. Morto il marito, un generale, durante la guerra Iraq-Iran (1980-1988) era rimasta con un figlio e una figlia, che si è sposata tre anni fa in Germania. Il figlio era stato preso, nel 2004, e picchiato da un gruppo di al Qaeda, mentre i gruppi della resistenza diffondevano volantini perché volevano che tutti i giovani si unissero a loro. «Ma io avevo paura. Ogni volta che gli americani venivano attaccati ci bombardavano, venivano a perquisire casa, a interrogarci, la violenza è aumentata nel 2005, così abbiamo deciso di venire ad Amman», sostiene Nidhal, che ora lavora come volontaria per la Mezzaluna rossa giordana e guadagna 100 dinari al mese. Prima della guerra, in Iraq, era impiegata al ministero delle comunicazioni. «Ora accettiamo di lavorare per la Mezzaluna perché così possiamo aiutare i profughi iracheni». Nidhal si lamenta di alcune ong che non vedono i loro problemi reali: «eppure loro chiedono i soldi in nostro nome e prendono anche lo stipendio grazie a noi e noi non siamo nemmeno ascoltati».Cala la sera su Jabal al Hashemi, le strade semibuie sono deserte, è difficile anche trovare un taxi, poi alla fine uno si convince ad accompagnarci, ma ci lascia a uno degli svincoli che portano in città.(4/fine. Le precedenti puntatesono state pubblicate il 22 dicembre,il 29 dicembre e il 6 gennaiio) ‘

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