Nel pantano iracheno

A nove mesi dall''invasione, le condizioni di vita degli iracheni sono disastrose, mentre i nodi politici vengono al pettine. E la resistenza continua nonostante la cattura di Saddam'

Nel pantano iracheno
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31 Dicembre 2003 - 11.52


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La cattura di Saddam non ha portato l”effetto sperato. Da Bush e alleati. La resistenza continua. E probabilmente non sarà un colpo di coda, come vorrebbero i fautori della guerra. La resistenza all”occupazione è inquinata da attentati suicidi, terrorismo e lotte tribali, ma questo non potrà distruggere la dignità di un popolo che rivendica la propria sovranità contro gli occupanti. Bush ha presentato un Saddam prigioniero, umiliato, distrutto, forse drogato, come un trofeo di guerra. Ma si tratta di uno scarno bottino che potrebbe persino nuocergli se alla fine di fronte a una corte irachena o internazionale venissero a galla tutti gli aiuti dati dagli Stati uniti, con il capo del Pentagono Donald Rumsfeld in prima fila, all”ex rais iracheno anche dopo che aveva già usato i famigerati gas contro i kurdi. A Bush forse sarebbe convenuto più un Saddam morto, perché, oltretutto, la taglia posta dai kurdi (probabilmente gli autori della cattura) sulla testa del loro oppressore è stata più alta di quella già considerevole di 25 milioni di dollari concessa dagli Stati uniti. La cattura di Saddam non ha smorzato la resistenza e ha innescato la miccia kurda. Che rischia di esplodere da un momento all”altro. I kurdi, forti dell”alleanza privilegiata con gli americani, hanno alzato il prezzo: chiedono un”ampia autonomia che rasenta l”indipendenza, con la revisione dei confini delle province kurde e l”inclusione di Kirkuk e dei suoi pozzi petroliferi che rappresentano il 40 per cento delle riserve irachene, e se queste richieste non verranno subito sancite dalla legge di transizione minacciano di indire un referendum che potrebbe prefigurare una secessione. Contro le richieste kurde si stanno peraltro mobilitando turcomanni e arabi che la prossima settimana scenderanno in piazza a Kirkuk per evitare che dopo l”arabizzazione di Saddam si imponga la kurdizzazione di Barzani e Talabani con effetti altrettanto deleteri, di cui si sono già visti i primi assaggi.Quella kurda è una spina nel fianco anche dell”amministrazione americana che non potrà non tenere in considerazione le richieste degli sciiti, che peraltro finora hanno tenuto a freno le loro milizie, impegnate a governare il territorio senza interferire con l”occupazione americana e alleata. Le prime contraddizioni con gli sciiti sono emerse in vista della formazione del governo di transizione alla fine di giugno: il piano americano prevede una sorta di elezione indiretta attraverso i comitati provinciali, peraltro nominati dall”amministrazione americana, gli sciiti invece, attraverso l”autorevole voce del leader religioso, l”ayatollah Ali al Sistani, che chiede una elezione diretta e a chi accampa il pretesto della mancanza di un censimento e liste elettorali, contrappone le schedature, quelle sì aggiornate, usate per la distribuzione delle razioni alimentari previste dalla «oil for food». Forse gli Stati uniti avevano sottovalutato che l”embargo avrebbe fornito uno strumento in più a Saddam per un controllo capillare del territorio e dei suoi abitanti. Comunque ora la gestione della «oil for food» è finita nelle mani degli americani e i proventi finiranno nel calderone del fondo per l”Iraq, la cui gestione non è per nulla limpida e ha già suscitato proteste.Del resto le condizioni di vita degli iracheni a nove mesi dall”invasione sono tutt”altro che migliorate. La maggior parte degli iracheni erano contenti della fine del regime di Saddam, ma non di come era finito. E quello che è seguito è stato anche peggio. Nessuno, soprattutto chi aveva subito le peggiori torture o ha visto sparire i propri familiari ad uno ad uno, poteva pensare di arrivare a considerare il dopo-Saddam peggio dei tempi della dittatura. Ai tempi di Saddam almeno c”era la sicurezza e il lavoro, ora non c”è più sicurezza e nemmeno lavoro. Ma non c”era la libertà, obietta qualcuno. Quale libertà? Il paese continua ad essere ostaggio di rastrellamenti, soprusi, punizioni collettive. E continuano a mancare i beni essenziali: elettricità, acqua, telefoni. E, in un paese che galleggia sul petrolio, la benzina è razionata e viene importata dal Kuwait e dalla Turchia. Mentre le file si allungano davanti ai distributori di benzina, c”è chi non può più permettersi una bombola di gas per cucinare perché costa troppo: priama si pagava 400 dinari, ora 2.000 (un dinaro equivale alle vecchie lire). E il 75 per cento della popolazione è rimasta senza lavoro.In questa situazione è facile reclutare mano d”opera tra i disperati per mettere una mina sulla strada dove passano le truppe americane: circola voce che per mettere una mina ti danno 70 dollari, quasi uno stipendio, o un sussidio mensile degli americani per quelli che hanno perso il lavoro. E poi si può sempre far leva sullo spirito patriottico, che non manca.’

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