L”Iraq non può attendere. Tutti potremmo essere d”accordo, ma sul che cosa si crea la divisione. Lo si è visto ieri a Madrid: da una parte la Conferenza dei paesi donatori che cerca di raccogliere soldi per continuare l”occupazione – anche se formalmente si parla di ricostruzione – e dall”altra le manifestazioni dei pacifisti che dell”occupazione chiedono la fine. E” stato il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ad aprire la Conferenza internazionale, alla quale partecipano una settantina di paesi con rappresentanze a diversi livelli, con una perorazione alla «generosità», che però non sembra aver smosso gli animi e soprattutto le borse dei presenti. Per la ricostruzione del paese (a partire dalle infrastrutture, agricoltura, sanità) occorrono 36 miliardi di dollari, secondo la Banca mondiale, ai quali gli Stati uniti aggiungono 19 miliardi di dollari destinati soprattutto al problema della sicurezza (leggi occupazione). Ma se avessero ragione i molti che sostengono che i problemi di sicurezza sono provocati dalle presenza delle truppe straniere, la loro partenza potrebbe costituire un grosso risparmio.Comunque i «donatori» sembrano per ora confermare le previsioni della vigilia: ai 3-5 miliardi di dollari della Banca mondiale promessi nei prossimi cinque anni, 1.500 milioni di dollari del Giappone, 232 dell”Unione europea, 495 della Gran Bretagna, 300 della Spagna dovrebbero aggiungersi, forse, 150 dell”Italia (ma non è ancora ufficiale), la quota che gli Stati uniti eventualmente cederanno alla gestione internazionale dei 20 miliardi di dollari stanziati (metà come dono e metà come aiuto da rimborsare). Mentre non si sono ancora pronunciati i ricchi paesi del Golfo.Se per Kofi Annan «l”avvio della ricostruzione non può aspettare la nascita di un governo iracheno sovrano» e si gioca la carta del Trust donors fund sotto controllo internazionale e non degli americani, il rappresentante del Consiglio governativo iracheno nominato dal proconsole Paul Bremer, Iyad Allawi, si sente in grado o in dovere di fare promesse e si gioca la carta delle privatizzazioni. «Il nuovo Iraq avrà prima di tutto un”economia di mercato», ha detto Allawi parlando a un forum di oltre 300 imprese, organizzato parallelamente alla conferenza dei donatori. Se per le imprese gli investimenti in Iraq restano legati alla questione della sicurezza, Allawi capovolge l”ordine e sostiene: «noi speriamo vivamente di diventare a breve termine un paese stabile, democratico e moderno, con l”aiuto della comunità e del settore privato internazionale», ribadendo che «nessun settore dell”economia sarà chiuso agli investimenti stranieri, tranne quello petrolifero».Prima di tutto il piano di privatizzazione del paese tanto sponsorizzato dagli Stati uniti è stato avallato dal ministro delle finanze, Kamil al-Gailani, espressione di un Consiglio governativo che non ha nessuna legittimità. Non solo. Anche all”interno del Consiglio governativo vi sono forti resistenze a questo piano di privatizzazione selvaggia (il cento per cento di tutti i settori economici escluse le risorse naturali) non solo da parte del rappresentante del partito comunista e di alcuni islamisti ma dello stesso Chalabi, il più filoamericano, che probabilmente si sente leso nei suoi interessi personali di fronte a una eventuale invasione di capitale straniero.Comunque l”autorizzazione, che potrebbe essere rimessa in discussione da un futuro governo legittimo, alle compagnie straniere di investire e avere la proprietà di nuove o già esistenti imprese irachene in qualsiasi parte dell”Iraq e in tutti i settori (tranne il petrolio), trasformerebbe l”Iraq nel paese più liberalizzato del mondo. Tuttavia il piano di privatizzazione dell”Iraq ha fatto nascere molti dubbi sull”efficacia di una scelta che ricorda molto da vicino il passaggio dell”Unione sovietica al «capitalismo selvaggio» con tutte le sue conseguenze. Il primo effetto potrebbe essere quello della chiusura o di tagli nelle imprese non competitive – la maggioranza – con un ulteriore aggravamento del problema della disoccupazione, che già investe oltre il 50 per cento della popolazione.Gli iracheni non potranno nemmeno beneficiare degli utili ricavati dalle imprese straniere che si saranno accaparrate (anche con sistemi mafiosi) i settori più redditizi perché gli utili potranno essere rimpatriati «immediatamente e completamente». Anche le banche straniere potranno avere il controllo del 50 per cento di quelle irachene (con l”eccezione di due), fino al 2008, dopo di che le banche irachene potranno finire completamente nelle mani di banchieri stranieri. Il piano di privatizzazioni riduce anche le imposte ad un massimo del 15 per cento mentre per i beni importati si pagherà il 5 per cento, escluse le medicine, i beni alimentari, libri, e le importazioni delle agenzie che fanno riferimento ai paesi della coalizione occupante. Non è difficile immaginare quale sarà la ricaduta sull”Iraq degli investimenti stranieri. E nonostante i problemi di sicurezza e le incertezze sul futuro governo dell”Iraq (che non sembra comunque immediato), ci sono compagnie pronte a correre il rischio, un centinaio di queste, soprattutto statunitensi e britanniche (le più favorite, tra le quali la Exxon Mobil, la Delta Airlines e l”American hospital group), si sono riunite la settimana scorsa a Londra per discutere dell”opportunità di investimenti in Iraq. La previsione più quotata: la Mc Donald aprirà il prossimo anno i suoi fast food anche a Baghdad. E non c”è di che rallegrarsi.’
La colletta di Madrid
Annan apre la conferenza dei donatori: l''Iraq non può attendere il governo sovrano'
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24 Ottobre 2003 - 11.52
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