Si chiama al Wardhia la Cernobyl irachena

A 40 chilometri da Baghdad sorge il vecchio Centro per la ricerca atomica, saccheggiato dalla popolazione che ora rischia di ammalarsi di cancro

Si chiama al Wardhia la Cernobyl irachena
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5 Giugno 2003 - 11.52


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Al Wardhia potrebbe diventare una nuova Cernobyl, la Cernobyl irachena. L”allarme è stato lanciato da ricercatori nucleari iracheni, ma il mondo lo ignora. Il paesaggio è desolante sotto il sole cocente, quasi a presagire l”imminente catastrofe ambientale. Tutta la zona è contaminata dopo che i saccheggiatori hanno fatto razzia del materiale radioattivo contenuto nel magazzino del vicino impianto nucleare lasciato senza protezione dopo l”arrivo degli americani e la precedente fuga del personale iracheno. Ora i soldati Usa hanno piantato la loro bandiera a stelle e strisce su una torretta appena ricostruita all”interno dell”enorme compound che ospita il Centro per la ricerca atomica di Tuwaitha, anche il recinto esterno demolito mattone per mattone dai saccheggiatori è stato sostituito con un muro di terra e detriti sovrastato dal filo spinato. La recinzione tuttavia appare una burla dopo che all”interno tutto è stato saccheggiato e continua ad esserlo sotto gli occhi vigili dei soldati americani. In quello che era il posto di controllo all”entrata, una donna vende uova. Siamo a una quarantina di chilometri a sud di Baghdad, nel centro per la ricerca nucleare, dove si stava studiando un programma per la realizzazione della bomba atomica irachena. La ricerca tuttavia era stata abbandonata già nel 1981 dopo che Israele aveva bombardato il più potente dei reattori, prodotto dai francesi. Ne restavano allora due piccoli, uno russo e uno francese, ma non in grado di sostenere un programma di armamenti nucleari, e comunque bombardati dagli americani durante la guerra del Golfo del 1991. Durante l”ultima guerra invece sul compound sono caduti solo due missili, forse per sbaglio, dicono. L”impianto è nascosto dietro una gigantesca parete, dalla cui dimensione si può solo intuire l”importanza attribuita al progetto quando fu avviato, ma ora del «sogno» di allora rimaneva solo la ricerca relativa all”agricoltura e alle medicine.Il passaggio verso la centrale è bloccato dai carri armati americani che finalmente hanno messo sotto controllo anche la cosiddetta «Location C», ovvero il magazzino di stoccaggio, dove erano depositati circa 400 barili di scorie radioattive e uranio arricchito. Troppo tardi. Inutilmente gli abitanti di Ishtar (la dea dell”amore, che non sembra proprio avere dimora qui), il villaggio di 250 anime adiacente all”impianto hanno cercato di impedire il saccheggio avvisando la popolazione della pericolosità del contenuto dei barili e chiedendo agli americani la protezione del sito che prima era sotto il controllo dell”Aiea (Agenzia internazionale per l”energia nucleare) oltre che dei responsabili iracheni del Centro di ricerca che nel frattempo erano fuggiti.Nel piccolo villaggio si entra dopo aver superato una barriera di protezione creata dagli stessi abitanti. In un magazzino costruito di lamiere, infuocate sotto il sole, tra vecchi elettrodomestici e pezzi di ricambio riciclati incontriamo alcuni esponenti di un gruppo per il monitoraggio ambientale che si avvalgono anche della collaborazione di alcuni volontari. «Abbiamo cercato di convincere gli americani che era necessario proteggere il magazzino, ma inutilmente, i marine dicevano che erano venuti per combattere non per decontaminare la zona e prima di andarsene, dopo aver aperto i cancelli per verificare, il loro traduttore, abu Mohammed, un kuwaitiano, aveva dato il via libera ai saccheggiatori», racconta uno di loro. E aggiunge: «non abbiamo potuto fermarli perché loro erano armati e noi no».Anche il direttore dell”Aiea aveva chiesto agli americani la protezione di quest”area. Inutilmente e inutilmente, subito dopo i saccheggi, aveva chiesto di inviare propri ispettori per valutare i danni. Gli americani l”avevano impedito, ora finalmente hanno dato il via libera, ma nel frattempo, dicono gli abitanti, hanno cercato di cancellare le prove del disastro, ma non tutte sono eliminabili, purtroppo gli effetti saranno ben visibili, a lungo. Comunque domani arriverà a Baghdad un team di ispettori inviati dal direttore dell”Aiea Mohammed el Baradei, ci hanno confermato alle Nazioni unite. Gli ispettori resteranno per 10 giorni per indagare sull”accaduto e stilare un rapporto che sarà però diffuso solo a Vienna.Al cancello sbarrato davanti al centro di ricerca nucleare di Tuwaitha troviamo Hisham Abd al-Malek, ispettore nucleare nazionale, lavorava qui dal 1988, ora fa il traduttore per gli americani – «devo pur fare qualcosa per mantenere la mia famiglia, ho tre figli», si giustifica – e per parlarci deve chiedere il permesso al tenente. Anche lui abita a Ishtar ed era tra quelli che hanno cercato di impedire e poi di riparare il danno. «Dopo che i saccheggiatori erano andati via, siamo entrati nel magazzino e abbiamo trovato polvere gialla (ossido di uranio) sparsa dappertutto, siccome i barili erano pesanti – 250/300 chili l”uno – li avevano svuotati sul posto. Per evitare il peggio, con il vento di quei giorni la polvere si sarebbe diffusa rapidamente, abbiamo coperto tutto il materiale sparso sul terreno di cemento», racconta l”ispettore. «Abbiamo lavorato in dieci persone per due giorni, sei ore al giorno», aggiunge, e mi mostra le mani squamate. «Subito dopo il problema era recuperare i barili rubati dagli abitanti di al Wardhia, ma molti non volevano restituirli perché dicevano di averli comprati. Abbiamo anche chiesto l”intervento dei religiosi, ma senza grande successo, anche perché non vedendo subito l”effetto della contaminazione i malcapitati pensavano si trattasse solo di un pretesto per recuperare la refurtiva. Nel frattempo i barili erano stati svuotati e chi pensava che l”uranio arricchito fosse un fertilizzante l”aveva già sparso sul proprio campo, altri avevano semplicemente lavato i barili nei pozzi d”acqua. A al Wardhia nessuno dispone di acqua corrente, quindi si usano taniche per il trasporto e bidoni per conservarla. Ma i bidoni sono serviti anche per la raccolta del latte, essendo questa una zona agricola e di allevamenti», spiega il dottor Hisham. Per recuperare i barili non restava che ricomprarli. La proposta del nuovo capo delle operazioni militari, Khadar al-Abbas Hamza, ricercatore rifugiatosi negli Stati uniti nel 1993 e rientrato al seguito degli americani, è stata quella di offrire una ricompensa a chi riconsegnava i barili. L”annuncio è stato fatto via radio, ma il risultato meno soddisfacente del previsto perché i 3 dollari offerti (equivalenti a circa 4.000 dinari) erano di molto inferiori ai 18.000 pagati e anche perché molti bidoni non erano già più a el Wardhia. Ne sono stati recuperati solo una sessantina.La minaccia del pericolo della radioattività non è stata percepita subito nella sua gravità da tutta la popolazione, «sono passati diversi giorni e non mi è successo nulla», dice qualcuno. Altri cominciano ad allarmarsi: una donna ha visto la sua bambina lavata in uno dei barili incriminati coprirsi di macchie. Inutile dire che purtroppo gli effetti si vedranno a lunga scadenza, anni e generazioni potranno subire le conseguenze di questo disastro ecologico. Alcuni specialisti hanno appena terminato, lunedì scorso, una prima ricognizione del villaggio: «L”acqua è contaminata, le case sono contaminate, gli animali e persino i vegetali sono contaminati», sostiene Thair Ismael Jazim. «Abbiamo riscontrato alti livelli di radioattività persino nel letto di queste povere abitazioni, nei bagni e negli orli dei vestiti delle donne», sostiene Hamid al Bahily. Il pericolo maggiore è quello del cancro, soprattutto la leucemia. La «polvere gialla» diventa nociva quando viene ingerita, 2.000 abitanti di al Wardhia sono a rischio, il cancro potrebbe manifestarsi entro tre mesi, ma anche molto dopo.Dopo i risultati dell”ispezione la popolazione comincia a preoccuparsi. Vi hanno dato qualche indicazione, chiediamo, dovete fare dei controlli in ospedale? «Non ci hanno detto nulla, noi vorremmo andare all”ospedale, ma il più vicino è a molti chilometri da qui», ci rispondono alcuni giovani. E «dopo i saccheggi degli ospedali non abbiamo nemmeno più gli strumenti per fare questi controlli», commenta Hisham Abd el-Malik. Abbiamo cercato il capo delle operazioni nucleari, Khadar al-Abbas ma non siamo riusciti a trovarlo.Il colonnello Mickey Freeland (terra libera, uno scherzo della sorte o l”avranno scelto per il suo nome?), capo del team militare Usa per la decontaminazione nucleare, invece minimizza: «Non penso ci siano rischi per la popolazione. Evitiamo allarmi. Se la popolazione l”ha ingerito (l”uranio, ndr), ci sono delle medicine da prendere». Intanto la popolazione è abbandonata a se stessa e anche se ci fossero delle medicine da prendere non lo sa e tra poco sarà troppo tardi. Anzi, è già troppo tardi. Questa è solo una delle responsabilità degli americani che hanno occupato l”Iraq, ma non è sicuramente una delle minori.’

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